LA PUBBLICITÀ NON È UN’OPINIONE: DALLA CREATIVITÀ ALLA MATEMATICA, ECCO COME IL WEB HA RIVOLUZIONATO GLI SPOT

Serena Danna per "Il Corriere della Sera- La Lettura"

Umanoidi con la faccia da cane, scritte fluorescenti dirette alla retina, finestre in pop-up che si aprono senza controllo, jingle devastanti per l'udito e video interminabili formato tv per accedere a un clip di pochi secondi. Il mondo della pubblicità online è una giungla. A dispetto di un mercato che continua a promettere miglioramenti (nel 2012 è cresciuto del 17,5% rispetto all'anno precedente), la qualità e la creatività dell'offerta pubblicitaria sembrano essere i ritardatari della rivoluzione digitale.

Un mondo capace per decenni di ispirare consumi, stili di vita e sottoculture appare oggi semiaddormentato sul divano a guardare Mad Men, la serie tv sugli anni dorati e spietati dell'alba della professione.

«L'industria non vede potenziale economico nell'advertising online - spiega a "la Lettura" il futurologo del marketing Martin Lindstrom - e così gli investimenti continuano a essere scarsi: una campagna virale online, anche la più riuscita, non porta nelle casse delle aziende ricavi paragonabili a quelli provenienti dalla tv, per questo la maggior parte dei brand è ancora reticente».

La differenza di costi è impressionante: a fronte di migliaia di euro per la realizzazione di uno spot televisivo, un banner su Internet tarato su mille utenti costa sessanta centesimi, cifra che sale a dodici euro se l'utenza dei mille è profilata per il prodotto (fonte: Tow Center for Digital Journalism).

Per Lindstrom, autore di Le bugie del marketing (Hoepli), è proprio il behavioural targeting - la tecnica usata per adeguare in tempo reale l'erogazione del messaggio pubblicitario al comportamento dell'utente e ai suoi interessi - l'«illusione comoda» del mondo pubblicitario: «Oggi è possibile individuare gusti, preferenze, abitudini dei consumatori online - spiega -. Un'azienda preferisce investire denaro nell'estrapolazione di quei dati percepiti come funzionali all'acquisto, piuttosto che rischiare soldi e tempo in un'operazione creativa dal futuro incerto».

Al posto dei brillanti copywriter sempre alla ricerca dell'idea giusta per vendere un prodotto mascherato da sogno, ecco gli analisti di dati che forniscono l'identikit del consumatore. «Il mestiere del pubblicitario - dice Paolo Iabichino, direttore creativo di OgilvyOne - non si basa più solo su risorse verbali e visive, servono nuove competenze, dall'antropologia all'etica: la tecnologia, su tutte, svolge un ruolo fondamentale».

Non a caso, ai Cannes Lions, il prestigioso festival della creatività che si apre a Cannes il 16 giugno, debutta quest'anno la categoria «Innovative Lions», dedicata all'uso di tecnologie appunto innovative per la realizzazione di idee.

Tra i progetti che saranno sottoposti alla giuria capitanata dal guru pubblicitario David Droga, una vetrina interattiva firmata Adidas e una maglietta «programmabile» di Ballantine's. «La tecnologia solletica la pigrizia dei pubblicitari e dei clienti - aggiunge Iabichino, autore di Invertising (Guerini e Associati) -. L'uso di tecniche Big Data aumenta l'efficacia dell'offerta, riducendo rischi e margini di errore, ma limita la nostra creatività».

Da un lato l'ossessione per il numero di fan, clic, iLike e condivisioni, dall'altro la profilazione del pubblico stanno trasformando la pubblicità in un'operazione più matematica che artistica: «Fare ricerca semantica - spiega Massimiliano Chiesa, fondatore dell'agenzia Dodicitrenta - diventa sempre più difficile: i clienti chiedono solo data-mining: da dieci anni sentiamo dire che i banner sono morti ma poi le aziende continuano a preferire un messaggio semplice che compare al momento giusto per il pubblico giusto piuttosto che una campagna di senso».

Se il mondo della creatività pre web si basava sull'ispirazione, quello digitale si basa sull'affinità: «La ricerca creativa - continua Chiesa - è demandata ai gusti degli altri: il modello Facebook impone un'offerta basata su quello che i tuoi "amici" ascoltano, leggono, consumano».

È evidente che le competenze analitiche da sole non bastano: la pubblicità online richiede un ripensamento globale di strategie e contenuti. La lezione viene da Jonathan Mildenhall, vicepresidente Global Advertising Strategy and Creative Excellence della Coca-Cola, che ha spiegato come l'obiettivo per i brand non sia più la costruzione di un immaginario collettivo ma la creazione di «idee contagiose».

In uno scenario mutato, dove la scarsità tipica della comunicazione di massa è stata rimpiazzata dall'overload informativo di Internet, la sfida è creare contenuti capaci di imporsi nelle conversazioni online per diventare parte della cultura pop che nasce da Internet.

Per questo la strategia «Liquid and Linked» (fluido e «linkato») della multinazionale americana si basa su uno storytelling studiato per infilarsi nelle conversazioni sui social network e «guidarle».

Se - come sostiene Martin Lindstrom - gli slogan e i tormentoni degli anni d'oro della pubblicità televisiva non torneranno più, all'orizzonte ci sono modelli basati sul coinvolgimento dei consumatori nella scrittura della storia e delle storie del brand: «In Rete - chiosa Vanni Codeluppi, autore di Storia della pubblicità italiana (Carocci editore) - chi progetta la comunicazione d'impresa deve lasciare spazio alla creatività del consumatore e catturarla». In questa direzione vanno esperimenti «personali» come Gagapedia, il social network dei fan di Lady Gaga, o «aziendali» come lo Sneakerpedia della catena sportiva Foot Locker.

«Per sopravvivere alla struttura open che impone la Rete - scrive l'"Harvard Business Review" - le agenzie pubblicitarie non devono più pensare in termini di innovazione ma di trasformazione: c'è bisogno di clienti, manager e organizzazioni coraggiosi per ripensare il modello di business. Non più aziende che vendono tempo e idee dei loro impiegati, ma un sistema operativo che intercetti la creatività intorno al brand».

Mentre alcuni marchi della moda, consapevoli del cambiamento, hanno già rimodellato la loro offerta sulle nuove esigenze - Louis Vuitton con il suo magazine online «New, Now» e Prada con gli spot d'autore di un minuto - nel mondo del giornalismo, tra le vittime principali del calo di investimenti pubblicitari, si intravedono spiragli di cambiamento che puntano sulla progettazione «interna» di campagne per gli sponsor.

Testate come il «Washington Post», «The Atlantic», «Forbes» già permettono ai brand - non senza polemiche - di avere spazi ad hoc per sponsorizzare i loro prodotti (a gennaio un post di Scientology sul sito dell'«Atlantic» ha innescato una discussione vivacissima tra lettori e giornalisti).

I casi di BuzzFeed e The Verge stanno facendo scuola: entrambi hanno una redazione - dove lavorano insieme giornalisti, analisti di dati ed esperti di marketing - specializzata nel progettare contenuti pubblicitari più adatti ai lettori. Joe Purzycki, vicepresidente di Vox Advertising, il ramo pubblicitario della media company proprietaria di The Verge, ha spiegato: «Per aiutare le aziende a comunicare con i nostri lettori abbiamo fondato Vox Creative, un gruppo di designer, sceneggiatori, registi e programmatori informatici che sulla base della relazione che i nostri lettori hanno con il cliente possono architettare al meglio la storia».

Per Purzycki gli standard attuali nella pubblicità online sono focalizzati su un ritorno diretto di investimento e sullo stimolo di un'azione immediata da parte del consumatore. «Bisogna spingere i brand a essere più ambiziosi», sottolinea il manager. Nella speranza che nuovi numerosi «Mad Men», archiviati i banner con i cani a due teste, siano già al lavoro sul futuro.

 

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