TELECOM È GIÀ SPAGNOLA, E SARÀ SPOLPATA PER LA TERZA E ULTIMA VOLTA (PERCHÉ POI NON RIMARRÀ PIÙ NIENTE DA SPOLPARE)

1. TELECOM DIVENTA SPAGNOLA NEL MODO PEGGIORE
Salvatore Bragantini per "Il Corriere della Sera"

Chi voleva cambiamenti radicali in Telecom Italia (TI) è servito. In barba ai divieti Antitrust, la spagnola Telefonica è già al volante, complici gli altri condomini in Telco; Generali, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, i nostri capitani fuggitivi. L'operazione con cui Telefonica controllerà Telco (holding che ha il 22% del capitale ordinario di TI), però, non parte bene.

In TI Franco Bernabè era un capo azienda magari non estroso ma competente e teso al lungo termine, refrattario agli ukase dei condomini che lo volevano una volta obbediente esecutore, l'altra miracoloso taumaturgo; uscito lui inizia un nuovo corso il cui orizzonte pare angusto.

È difficile sottrarsi a questa impressione davanti al nuovo piano d'impresa, esposto dall'amministratore delegato di TI, Marco Patuano, in un'intervista al Corriere (9 novembre): i capisaldi sono un piano d'investimento in Italia (9 miliardi in tre anni), la cessione di Telecom Argentina (TA), l'emissione di un prestito obbligazionario convertendo, la cessione delle torri di trasmissione.

Poco c'è da dire sugli investimenti, che sono in linea con il 2012, quando TI ha investito in Italia 3,1 miliardi. Veniamo alla cessione di TA, per la quale Fintech, fondo messicano esperto in ristrutturazione del debito, spuntando dal cielo blu ha offerto un miliardo di dollari, solo il 10% più del prezzo di mercato. TA ha in cassa 600 milioni, quindi l'offerta vale in realtà 400 milioni. Non convince l'argomentazione per cui la legge locale ostacola l'arrivo a TI di quei soldi: essi possono sempre essere investiti sul posto, o rimpatriati quando si potrà. Nessuno, inoltre, ha mai detto che TA fosse in vendita, né è stata allestita un'asta a tal fine.

I dubbi aumentano sapendo che è Telefonica il principale concorrente di TA; il nuovo padrone di TI forse vuol scegliersi i concorrenti. Più che domandarsi cosa ne pensino i regolatori locali (le cui logiche non sono sempre limpide), il mercato dovrebbe esigere dal cda un'asta vera e propria per TA, nell'interesse di tutti i soci.

Ma c'è di più: vendere TA ha senso solo come preludio alla vendita anche di Tim Brasil. Sul tema le dichiarazioni di Patuano al Sole 24Ore ricordano i responsi della Sibilla: «La domanda non è se con la salita di Telefonica in Telco noi saremo costretti a vendere Tim Brasil, ma se Telefonica può salire in Telco se noi non la vendiamo; e la risposta è no»; che cosa vuol dire? Forse che l'avventura internazionale di TI è finita. Chi l'ha deciso? E i soci sono d'accordo?

La diversità di trattamento è il tema-chiave del prestito obbligazionario convertendo, emesso per 1,3 miliardi; la decisione è stata presa in cda giovedì 7 e attuata in serata. Le offerte sul mercato spesso devono esser attuate immediatamente, ma se toccano il capitale vanno rivolte a tutti gli azionisti: il convertendo, invece, è andato solo ad azionisti istituzionali europei, con qualche eccezione, come l'americana Blackrock, che ne ha comprato 200 milioni.

Un prestito convertendo, lo dice la parola, deve essere convertito in capitale. Esso è un aumento di capitale a termine, sul quale nel frattempo si percepisce l'interesse, qui il 6,25%: non male, anche per un credito a un grande debitore. Il vantaggio per TI è che un convertendo non impone lo sconto sui valori di mercato: la sua remunerazione e i parametri di conversione lo hanno reso gradito agli istituzionali, accorsi in massa.

Restano però a bocca asciutta tutti gli altri azionisti, ordinari nel senso di «normali», il 25% del capitale ordinario, compresa la Findim (Fossati). S'intravede l'intento di mettere questa contro i grandi investitori istituzionali, il cui supporto essa va cercando per difendere il suo 5% di TI. A pensar male si fa peccato, ma forse il convertendo serve a saziare le pance degli istituzionali; domani avranno meno fame di ostacolare il nuovo corso iberico, con Findim o da soli.

Perché mai, avran pensato i nuovi padroni, curarsi degli altri soci, che non avranno i soldi, o la voglia, per combattere un'operazione che darà ad alcuni, più uguali degli altri, nuove azioni ordinarie; con esclusione quindi del diritto d'opzione per gli altri, senza che sia individuabile quell'interesse della società (a ricevere i soldi da quegli azionisti e non da altri) che è richiesto dall'equità, prima ancora che da un codice civile vecchio sì, ma vigente pur sempre. Vorrà qualcuno difendere, con il proprio investimento, anche quel poco di rispetto delle minoranze che permane in Italia?

Dulcis in fundo, la cessione delle torri di trasmissione (escludiamo, per carità di patria, che l'acquirente sia il principale operatore italiano, Mediaset). Le torri, dice Patuano, sono 20 mila e valgono 2 miliardi. È una scelta legittima ma miope: altri gestori la escludono, per evitare sorprese nell'utilizzo delle torri o nella manutenzione, cui solo il diretto interessato può provvedere con la prontezza e perizia necessarie.

Le torri sono parte del servizio, e TI dovrebbe utilizzarle pagando un canone a chi le comprerà. Più precisamente, sarà il canone a determinare il prezzo di vendita. Maggiore l'incasso oggi, più alto il canone domani: TI sta vendendosi il vitello in pancia alla vacca, come dicevano i nostri vecchi. Mai essi avrebbero fatto operazioni simili.


2. UN SACCHEGGIO DA 60 MILIARDI - COSÌ I CAPITALISTI SENZA CAPITALI HANNO DISTRUTTO UN INTERO SETTORE
Marco Panara per "Affari & Finanza - la Repubblica"

La storia di Telecom dal 1999, anno dell'opa del secolo (ventesimo) ad oggi, si riassume in due numeri. Soldi usciti dall'azienda per remunerare gli azionisti, pagarne i debiti, comprare le quote di minoranza di Tim e quote di altre aziende legate in qualche modo ai suoi azionisti (come Seat): 60 miliardi di euro. Soldi messi dagli azionisti nell'azienda nello stesso periodo: zero.

La differenza mostruosa tra queste due cifre, oltre a dimostrare l'assurdità di un'epopea nella quale il capitalismo italiano ha dato il peggio di se stesso (come purtroppo in numerose altre occasioni) con la complicità della politica e del sistema bancario, ci rivela anche che alla fine degli anni '90 Telecom era ricchissima. Possiamo solo immaginare cosa potrebbe essere adesso se quella ricchezza fosse stata gestita in maniera meno distruttiva, quale ruolo avrebbe nel mondo e quali prospettive.

E possiamo immaginare (un po' a fatica in realtà) come sarebbe l'Italia, se quella che era la prima azienda tecnologica del paese avesse mantenuto la propensione all'investimento e all'innovazione che aveva allora. Volendo farsi del male possiamo andare oltre, e ricordare che ancora nel 1999 Omnitel era italiana ed era, insieme a Tim, ai vertici della telefonia mobile europea.

PSegue dalla prima oi la Olivetti di Colaninno preferì cedere Omnitel ai tedeschi della Mannesmann e impiegare il ricavato, insieme a molto denaro messo a disposizione dalle banche nazionali e internazionali, per comprare Telecom Italia. Mannesmann due anni dopo cedette tutta la sua telefonia mobile a Vodafone, che grazie a quell'acquisto fece il salto di qualità che le ha consentito di diventare il protagonista globale che oggi è, mentre Telecom Italia proseguiva il suo calvario che l'ha portata ad essere il più debole tra gli ex monopolisti dei principali paesi europei.

Viene da chiedersi, ancora, come sarebbero andate le cose se il sistema Italia avesse creduto di più nel progetto Omnitel e di meno nei ‘Capitani coraggiosi'. E viene infine da fare una triplice riflessione. La prima è su come sia stato possibile che la classe dirigente italiana abbia dissipato con tanta insipiente naturalezza, e senza nessuna resistenza da parte del sistema paese, patrimoni industriali e tecnologici imponenti nelle telecomunicazioni, nell'informatica, nella chimica, nella farmaceutica, nell'ingegneria delle grandi opere, forse anche della siderurgia.

La seconda è su come sia possibile che dopo un saccheggio imperterrito durato quasi tre lustri, Telecom, sia pure con i suoi 28 miliardi di debiti e con una proiezione internazionale assai minore di quella che aveva solo 15 anni fa, tuttavia sia ancora qui. La terza riflessione è una valutazione, un po' cinica in verità, su quello che è nato da quel saccheggio. Quei 60 miliardi di euro usciti da Telecom dal 1999 ad oggi sono una cifra imponente, che poteva far nascere nuove industrie, fiorire nuovi settori, decollare nuovi capitani d'industria. Nulla di tutto questo. In questo turbillon miliardario qualcuno ha guadagnato, molti, anche tra i protagonisti, hanno perso.

Dei ‘Capitani coraggiosi' è rimasto in piedi solo Colaninno; nell'epoca Tronchetti ci hanno rimesso sia la Pirelli che i Benetton; nell'epoca Telco ci hanno rimesso tutti. La vicenda di Telecom ricorda per certi aspetti la nazionalizzazione delle imprese elettriche, che mise in mano ai grandi capitalisti italiani dell'epoca somme ingenti, e l'aspettativa era che da quella disponibilità nascessero grandi cose. Allora come oggi, il capitalismo deluse. Storie di italica dissipazione che regolarmente si ripetono.

A questo punto tuttavia il problema è il futuro. L'unica cosa di cui ha veramente bisogno Telecom è quello che nella sua storia dalla privatizzazione in poi non è mai accaduto: che gli azionisti ci mettano dei soldi dentro. Un robusto aumento di capitale di almeno 5 miliardi per ridurre il debito, recuperare un rating di migliore qualità e rilanciare gli investimenti. Ad oggi però la prospettiva non è questa. Il massimo al quale si è stati capaci di arrivare è un prestito convertendo da 1,3 miliardi, che non risolve i problemi e non rilancia l'azienda, che per tirare avanti sceglie di ridurre il suo perimetro. Sostanzialmente è la continuazione della storia già vista.

Per l'Italia non è una buona notizia. Della sua industria delle telecomunicazioni, che è tra le più importanti di ogni paese, se andrà in porto il passaggio del controllo di Telecom a Telefonica, di italiano resterà solo la piccola Tiscali (229 milioni di ricavi a fine 2012 sui 35 miliardi del settore). Vodafone è inglese, Fastweb è svizzera, H3G è cinese, Wind è russo-norvegese. Il problema non è però la nazionalità del controllo, o almeno non soltanto né soprattutto.

Nel caso di Telecom nelle mani di Telefonica, il problema è semmai il duplice fatto che Telefonica ha un conflitto di interessi con Telecom in America Latina, e che è enormemente indebitata e quindi non ha le risorse per fare in Italia gli investimenti di cui Telecom e il paese avrebbero bisogno. Guardando all'intero settore quello che emerge è che i ricavi sono in discesa, tra il 2005 e il 2012 di 8,5 miliardi di euro, e in discesa sono anche gli investimenti, dai 7 miliardi del 2005 ai 6 del 2012. Che vuol dire un miliardo in meno in termini assoluti, ma tenendo conto di sette anni di inflazione, sia pure contenuta, in termini reali la diminuzione si misura almeno nel doppio.

L'altra faccia del declino di investimenti è che in Italia la percentuale delle linee fisse a banda larga uguali o maggiori a 10 megabit al secondo è pari al 13 per cento del totale contro una media europea del 59 per cento, e che la percentuale di quelle con banda larga uguali o maggiori di 30 megabit per secondo è praticamente nulla, mentre la media europea è del 15 per cento. Se cercavamo un ulteriore motivo della bassa competitività italiana, è in questi numeri.

C'è purtroppo una ragione per ritenere che le cose non cambieranno rapidamente: il sistema, non solo Telecom, è terribilmente indebitato. Mettendo insieme Telecom, Wind, H3G e Fastweb (i dati di Vodafone per l'Italia non ci sono), alla fine del 2012 il debito complessivo era di 52 miliardi di euro a fronte di 38 miliardi di ricavi.

Con numeri del genere, se non c'è nessuno che immette nuove risorse, non solo è inutile illudersi che recupereremo in tempi accettabili il gap enorme che ci separa dalla media europea, ma si può tranquillamente scommettere su un ulteriore declino di un settore che è entrato ormai da qualche anno in un circolo vizioso: non potendo investire in innovazione (per i troppi debiti) la competizione è solo sui prezzi, che scendono deprimendo ricavi e margini e di conseguenza riducono la capacità di investimento.

In tutto questo la responsabilità non è solo di Telecom, ma il peso della sua debolezza è enorme, perché ha il monopolio della rete fissa e perché è il primo operatore del paese, quello che avrebbe dovuto, e in futuro dovrebbe essere, il motore principale degli investimenti e dell'innovazione. E che non lo è stato negli ultimi 13 anni e non lo sarà nei prossimi.

 

 

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