LA "CONTROSTORIA DELL’ITALIA" BY MUGHINI – ALDO GRASSO SUL LIBRO DI GIAMPIERO MUGHINI: "UNA BIOGRAFIA CULTURALE DEL PAESE E DELL’AUTORE" - IL TABÙ FONDATIVO DELLA REPUBBLICA ITALIANA, NATA DA UNA “GUERRA CIVILE”, IL “TERRORISMO ROSSO”, I DELITTI COMPIUTI DALLE FRANGE PIÙ ESTREME E DA CUI MUGHINI HA PRESO CONGEDO CON “COMPAGNI, ADDIO”, UN LIBRO DEL 1987 CHE GLI HA CHIUSO TANTE PORTE IN FACCIA – MUGHINI: “ERA UN TEMPO IN CUI ME LA PRENDEVO SE SU UN GIORNALE MI OFFENDEVANO. OGGI NON MI FA PIÙ NÉ CALDO NÉ FREDDO"
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" - Estratti
Per afferrare un libro, prima con le mani e poi con la testa, il primo aiuto lo chiediamo a una demarcazione, quell’attitudine che nasce dal bisogno di inventariare, di dare immediata fisionomia a qualcosa che ci attrae e nello stesso tempo ci spaurisce. Per fortuna, la risoluzione tarda a venire e resta sospesa; bisogna giungere al termine di Controstoria dell’Italia.
Dalla morte di Mussolini all’era Berlusconi di Giampiero Mughini, in uscita oggi per Bompiani, per trovare infine un soccorrevole grimaldello: «Quella di cui sono più orgoglioso e che costituisce il fondale della “controstoria” che state finendo di leggere: raschiare via via i presupposti di quella guerra civile che aveva insanguinato l’Italia tra il 1943 e il 1945, e di cui sono stati in molti ad avere nel dopoguerra come una sorta di nostalgia.
E dunque darsi ad affrontare ciascun personaggio rilevante, ciascun momento politico della nostra storia, ciascun comparto della nostra scena culturale non con l’aria di chi ha già etichettato tutto e bensì con quella di andare scoprendone ogni volta un versante rimasto nascosto e offrirlo a un lettore che non sia catafratto nelle sue convinzioni».
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Il libro si offre come il punto d’arrivo di una ricerca di sé stesso, che è durata tutta una vita, la ricostruzione nel tempo di una fluida realtà psicologica e «politica» raggiunta non mediante l’abbandono a una memoria affettiva, ma attraverso un vertiginoso confronto con temi inesauribili ed elusivi. Il racconto crudo e immediato della sua vita — un racconto che non si risparmia nulla dei dettagli più urtanti ed eloquenti degli anni del dopoguerra — è riscattato da una scrittura sontuosa, quasi ossessiva, come se l’esuberanza fosse il solo modo di distruggere le folte difese che nascondono la verità e di penetrare là in fondo, nell’abisso, dove vive il segreto.
L’architettura del libro è singolare. Ogni capitolo è preceduto da un disegno o da una foto: una copertina della «Domenica del Corriere» del dicembre 1944, il frontespizio di un libro di Romano Bilenchi, la foto di Fausto Coppi tratta da un libro di Gianni Brera, due disegni di Bruno Munari, la drammatica foto del 1945 che ritrae una famiglia tedesca suicida pur di non accettare l’arrivo vittorioso delle truppe americane, la foto che incornicia due terroristi di Prima linea…
Dal punto di vista narrativo queste illustrazioni assolvono a un duplice scopo. Da un lato, sono una sorta di introduzione al capitolo attraverso la forza simbolica che le immagini esprimono nel conservare, passibili di indagine, momenti che il normale fluire del tempo sostituisce immediatamente.
Dall’altro, aiutano il lettore nel memorizzare i fatti raccontati: «Non ricordo più se la frase “Gli articoli si guardano, le fotografie si leggono” l’avesse pronunciata Arrigo Benedetti o se invece lui l’avesse riferita in una qualche occasione perché era stata pronunciata da Leo Longanesi. Il quale nella redazione romana del settimanale “Omnibus”, a via del Sudario 28, era stato maestro di giornalismo e dunque di uso giornalistico delle foto a lui e al suo sodale e coetaneo Mario Pannunzio, il futuro direttore del “Mondo” settimanale».
Gli interessi di Mughini sono molteplici: la storia (con cui spesso dimentichiamo di fare i conti, anche se lei rimane sempre restia a fare sconti), la politica, lo sport, il design e le arti figurative, il fascismo («Il fascismo c’è stato e c’è stato profondamente nella nostra storia recente ed è del tutto naturale che ogni tanto ne emergano i sintomi, come di una febbre che non cessa»), le minigonne, gli amori, il terrorismo rosso, Craxi, Berlusconi…
Il presupposto culturale da cui inizia la sua appuntita confessione è il confronto serrato, spesso doloroso, a tratti sanguinante, con il tabù fondativo della Repubblica italiana, nata da una «guerra civile», anche se è difficile ammetterlo. È un punto nodale, che non concede vie di scampo: per chi conserva nostalgia della lotta armata, per chi pensa di aver affrancato l’Italia dal Male con una palingenetica «Liberazione», per chi vuol dimenticare di essere stato fascista e il giorno dopo partigiano, per chi sa che non c’è forma di intransigenza ideologica che non riveli il fondo bestiale del proselitismo.
Più di ogni altra cosa, lo hanno fatto soffrire il «terrorismo rosso», il settarismo, le gigantografie di Mao e di Stalin, l’arroventarsi ideologico della sua generazione, i tanti delitti compiuti dalle frange più estreme della sinistra (se ci si dedica all’opera di conversione non è mai per liberare ma per incatenare) e da cui Mughini ha preso congedo con Compagni, addio (Mondadori), un libro del 1987 che gli ha chiuso tante porte in faccia: «Era un tempo in cui me la prendevo se su un giornale mi offendevano. Oggi non mi fa più né caldo né freddo. L’ho ormai sperimentato a iosa quanto i rapporti più correnti tra noi giornalisti siano tali che al confronto i cannibali appaiono dei vegani».
Il suo percorso di ricerca è sempre trasversale, inquieto per evitare la pedanteria di un approccio frontale, anche quando parla della non ricambiata «generosità» di antichi sodali (è andato sotto processo per aver permesso a «Lotta Continua» di uscire, pur non condividendone le idee), anche quando parla del padre fascista («una brava persona, tutto il resto è cianfrusaglia»), anche quando diffida dei furbi, delle canaglie, dei cialtroni.