ARTISTI O MAFIOSI? I WRITER VENGONO CONDANNATI PER ASSOCIAZIONE A DELINQUERE – ABO: “IN ITALIA SPESSO IL GRAFFITISMO NON È IL FRUTTO DI UN’ESIGENZA CREATIVA, MA DI MALCOSTUME”

1. "ALTRO CHE ARTISTI, I WRITER VADANO IN CARCERE" COSÌ LE CITTÀ VOGLIONO CANCELLARE I GRAFFITI
Luca De Vito e Franco Vanni per "La Repubblica"

Associazione per delinquere. Questo il reato per cui un giudice del tribunale di Milano ha deciso di condannare due writer di 22 e 24 anni a sei mesi e venti giorni di carcere ciascuno. Le loro firme, Harvey e Zed, si leggono centinaia di volte sui muri della città. Scritte spruzzate di fretta durante raid notturni, in cui il magistrato ha visto la sistematicità tipica del crimine organizzato. Così la crew- il gruppo di writer che insieme disegnano sulle pareti - secondo la sentenza è un'associazione il cui fine è imbrattare.

Dopo il giro di vite della magistratura milanese, anche la procura di Bologna sposa la linea dura e valuta la possibilità di contestare il reato associativo ai writer (Lbz, Tls, Miserabile e Swoch) le cui firme ricoprono i 40 chilometri di portici simbolo della città. E il procuratore aggiunto Valter Giovannini parla di «centro cittadino forse irreparabilmente deturpato».

Ma proprio nel momento in cui nelle aule di giustizia la repressione del writing fa un salto di qualità, è un ex magistrato, il sindaco di Bari Michele Emiliano, a mettere in guardia: «Il carcere non serve a nulla, può anzi essere controproducente. Si punti sui lavori socialmente utili e sulle richieste di risarcimento».

E si riapre il dibattito su un tema con cui tutte le amministrazioni delle grandi città sono costrette a confrontarsi: «Anche se non è sempre semplice, bisogna distinguere fra street art e writing vandalico, per promuovere la prima e combattere il secondo», dice Emiliano, primo sindaco in Italia ad avere istituito un albo dei writer autorizzati a dipingere muri scelti dal Comune.

A Milano, se da una parte lo stesso Giuliano Pisapia ha presentato una denuncia contro ignoti per l'imbrattamento di un centro comunale, dall'altra vengono concessi spazi a giovani artisti, come il chilometro di parete lungo l'ippodromo. Nella capitale, invece, trentacinque muri in 31 strade sono stati messi a disposizione dei graffitari, ma da tre anni le multe per chi imbratta i muri sono salite a 300 euro, fino a 500 se si colpiscono monumenti e chiese.

Le amministrazioni si dividono fra intransigenti e dialoganti secondo schemi non sempre prevedibili. Fra le "colombe" c'è il leghista Flavio Tosi, sindaco di Verona: «Sono contrario al carcere per chi imbratta, tranne casi di recidiva - dice - li si punisca con lavori socialmente utili e al limite li si aiuti a realizzare la propria creatività, se c'è».

Le multe fioccano a Firenze e Napoli per scoraggiare i vandali, mentre Torino, per incoraggiare gli artisti, ha organizzato un festival internazionale (il Picturin Mural art festival) che ha trasformato importanti muri della città con grandi opere. La diatriba fra pugno di ferro e promozione artistica divide le città ovunque nel mondo.

Se New York da anni conduce una campagna di arresti e condanne per chi imbratta le stazioni della metropolitana, a Bristol in Gran Bretagna - dove ha cominciato a dipingere Banksy, star del writing - si è lasciato scegliere ai cittadini con un referendum se i murales fossero da cancellare o da salvare.

Una distinzione, quella tra imbrattatori e artisti, su cui però i graffitari stessi non si formalizzano: «Non me la sento di criminalizzare chi lascia tag in giro per la città - spiega Hogre, street artist romano - io faccio principalmente stencil, ma con i writer le radici sono comuni, scrivere sui muri è un gesto spontaneo che non critico. Perché allora non ce la prendiamo contro le orribili pubblicità che portano pochi soldi nelle casse dei Comuni o contro chi affigge manifesti elettorali abusivi?».


2. ACHILLE BONITO OLIVA: SPESSO È SOLO MALCOSTUME
Dario Pappalardo per "La Repubblica"

«C'è graffito e graffito. E il problema è che in Italia spesso il graffitismo non è il frutto di un'esigenza creativa, ma di malcostume». Achille Bonito Oliva, da critico d'arte, ha un giudizio netto sull'"estetica" prodotta dai writer italiani.

Bonito Oliva, due writer a Milano sono stati condannati a sei mesi di carcere per "associazione a delinquere"...
«Su questo non sono d'accordo. Usare il carcere è sbagliato. Bisognerebbe produrre sentenze educative. Costringere questi ragazzi a "fare pulizia", nel vero senso del termine, e lasciarli lavorare nei servizi sociali».

I writer italiani, insomma, non sono artisti per lei.
«Guardi, negli anni Settanta sono "inciampato" nei graffitisti americani. A Los Angeles come a New York, facevano esplodere il loro linguaggio su architetture obsolete, spazi dismessi. Raccontavano la rabbia delle minoranze nelle grandi periferie di città industriali. Mi colpiva la loro produzione di immaginario. Il loro non era un graffitismo analfabeta. Conoscevano le avanguardie e la Pop Art. E qui penso a Basquiat e a Keith Haring, di cui ho curato le mostre e che sono poi entrati nel circuito del collezionismo internazionale».

In Italia, invece?
«Il graffitismo è arrivato dopo, mi viene in mente il gruppo del Leoncavallo. Ma da noi sembra più una forma di socializzazione, una lotta tra "bande" per il controllo dei quartieri attraverso le sigle lasciate sui muri. Capisco il bisogno di esprimersi fuori dalle regole, il rischio però è di sviluppare forme di teppismo iconografico, di danneggiare i monumenti. I graffitisti italiani hanno il limite di "dimenticare a memoria" la storia, imbrattando spazi che invece vanno rispettati».

Non salva nemmeno uno street artist italiano?
«All'estero apprezzo Banksy e il francese Invader. In Italia non ho trovato nessuno in grado di intercettare la mia attenzione. Nessuna sorpresa, nessuna emozione».

 

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