I BANDITI DEL BUFFET! - CRISTIANA LAURO: LA BANDA DELLA TARTINA MILANESE CONFERMA CHE TUTTI VORREBBERO FARE I CRITICI ENOGASTRONOMICI: SE MAGNA E SE BEVE GRATIS! FRA WINE/FOOD BLOGGER E SCROCCONI CONCLAMATI LO STATO DI SALUTE DELLA CRITICA ENOGASTRONOMICA ITALIANA NON È INCORAGGIANTE
Cristiana Lauro per Dagospia
La notizia dei giorni scorsi della banda della tartina sgominata a Milano è esilarante, ronza spudoratamente fra l'assurdo e il patetico. Meraviglioso esempio di associativismo da buffet, dove un nutrito gruppo di professionisti di mezza età, tutt'altro che poveri, aveva messo a punto una sgangherata strategia dello scrocco. Spacciandosi per giornalisti, gli ingordi si accreditavano presso gli uffici stampa che li inserivano nelle mailing list di invito ai numerosi cocktail e press lunch in giro per la città e si abbuffavano come porci.
Lo scrocco è indecoroso, ma l'usurpazione di titoli o di onori è reato e qualcuno li ha denunciati.
La notizia è che, forse, abbiamo scampato il rischio di ritrovarli in rete a commentare, criticare, stilare classifiche di buoni e cattivi, dare voti a vini e ristoranti. Tutti vorrebbero fare i critici, principalmente enogastronomici: se magna e se beve!
Fra wine/food blogger, scrocconi conclamati che ambiscono a un ruolo in cambio di una foto su Instagram e influencer autorevolissimi sin dai tempi delle medie nel ruolo di capiclasse, lo stato di salute della critica enogastronomica italiana non è incoraggiante.
Il livello si è abbassato e, per diretta conseguenza, si è sfocata l'idea di qualità che nella sua diffusione per mezzi approssimativi si è piegata: il mediocre si è standardizzato diventando inaspettatamente sufficiente.
Nella valutazione approssimativa di ristoranti e vini si confondono grossolanamente "costoso" con "caro" ed "economico" con "conveniente". Tutto questo promuove spesso locali e materie prime modesti trascurando qualità, professionalità e talento che rischiano di andare a ramengo, in un paese che dovrebbe fare del patrimonio enogastronomico la sua bandiera.
Il livello di competenza della critica di settore attualmente percepito, ha subito un drastico declino dopo l'epifania del food blogger. Figura istruita superficialmente sulla base della sopravvalutazione di concetti come street food, panini o pizza gourmet, bistrot e trattoria contemporanea dall'ambiente finto povero, dove si mangia finto bene. Materie prime mediocri, cuochi in ciabatte, sommelier fissati col vinnaturismo oltranzista ( i vini naturali non esistono) che mettono barrique e botti da 30hl nello stesso calderone, e tutto quello di cui vi dovete accontentare in molti locali super cool soprattutto a Roma e a Milano.
D'altra parte il food blogger - concetto oramai esteso anche a chi scrive sul blog di altri - non fa un mestiere, è un hobbista, non è pagato. In alcuni, fortunati casi ottiene un rimborso spese di 20 euro a post che gli permette di testare le gelaterie Grom due/tre volte l'anno. Sono pochi anche quelli che col dominio di proprietà producono profitto. Il food blogger testa i locali prevalentemente alle serate di inaugurazione, quelle a base di finger food in omaggio.
Un gradino sotto esistono i derivati dei food blogger, sottoprodotti assemblati coi ritagli di quelli sopra, che bramano di guadagnare considerazione nel settore attraverso Tripadvisor, Instagram, piccole recensioni su Facebook e interventi come commentatori di blog nella speranza che una dozzina di persone se ne accorgano. Anche questi ultimi si formano in quelle che una volta si chiamavano paninoteche, oggi rinfrescate dalla locuzione "street food". Qualcuno di loro potrebbe anche sfoggiare baldanzoso un discreto background di apericene, ma predilige l'indiscutibile buon gusto della discrezione e non lo dice.
Il numero di liberi oratori che contrabbandano l'ordinaria cognizione di come si genera un blocco di lievito madre - che considerano la metafora massima del green - per erudizione da gastronomi navigati, è in forte crescita e può determinare il successo di un locale quanto la diffusione di idee confuse sulla qualità della ristorazione italiana.
Un buon gastronomo, come un bravo assaggiatore di vini - in Italia qualche bel nome c'è - fa questo mestiere per passione vera, perché formarsi per fare critica enogastronomica costa parecchio. È una passione per benestanti che, solo in alcuni casi, diventa un divertente e fortunato mestiere.Un critico enogastronomico che si rispetti, paga il conto al ristorante e declina gli inviti alle serate di apertura dei locali.
UN CAMERIERE SPRUZZA INSETTICIDA SUL BUFFET
Anche la critica enogastronomica ha dovuto acquisire il senso della rete, conformandosi a un linguaggio secco, dritto, sintetico, efficace e geniale per molti versi, ma che subisce gli effetti declassanti di un nugolo di novizi che non si adeguano al ruolo di apprendisti e hanno saltato le regole di grammatica del mestiere di gastronomo a piè pari, perché la grammatica annoia. Anche il solfeggio fa due palle alla pizzaiola, ma chi non sa cosa che sia non può pensare di spiegare al mondo che un pianista dovrebbe suonare meglio, magari complicandogli la carriera.
Il risultato è che quando mi affido a queste figure per la scelta di un ristorante e di un vino, subisco gli effetti approssimativi dell'improvvisazione, della mancanza di gerarchizzazione nella critica e, di solito, prendo delle cantonate bestiali.