![caldo afa estate](/img/patch/07-2015/caldo-afa-estate-694609_600_q50.webp)
LUGLIO COL MALE CHE TI VOGLIO - CERONETTI: “CREDO DI NON AVER MAI PATITO UN MESE PEGGIORE DI QUESTO. NEL 1930 ROMA, CHE DAVA A UNGARETTI IL SENTIMENTO DEL VUOTO, ERA INFINITAMENTE PIÙ RESPIRABILE DI QUESTA SUDICIA BABELE DEL 2015!”
Guido Ceronetti per “la Repubblica”
Per Ungaretti dovette essere specialmente difficile il luglio del 1931, se compose per il “Sentimento del tempo” versi di maledizione Di luglio dove l’insofferenza del poeta geme: «è furia che s’ostina, è l’implacabile». E rieccola, questa furia ostinata; è oggi, è adesso e nella mia certo non breve esistenza credo di non aver mai patito un luglio peggiore di questo.
Amo il caldo e il freddo mi fa paura, ma questa è una Némesis evocata dalle correnti miste ai gas-serra che siamo stati così bravi a concentrare nello spazio sublunare in cui respirano le bestie umane. Eppure nel 1930, Roma non era la stessa che dava a Ungaretti “il sentimento del vuoto”; Roma era infinitamente più respirabile di questa sudicia babele del 2015!
Il turismo era scarso e aristocratico, le osterie non formicolanti, e si poteva mangiare piacevolmente nelle numerose latterie descritte da Ercole Patti. Gli oratori erano di fatto Uno solo, che di luglio forse non faceva discorsi — e già era una frescura; il vento della sera non trovava ostacoli di troppi cantieri; la popolazione, prima delle campagne demografiche del regime, si manteneva equilibrata; le auto circolanti non superavano nel 1930 il numero di ventimila; gli alberi di pino e i celebri “pizzuti” del Verano spargevano generosa clorofilla.
Ah io le amavo le mie estati romane! E sfuggito alla calura lugliesca di giorno, cercavo frescura tra le rovine sacre la sera o sul lungomare di Ostia dove prima del Settanta la delinquenza di branco e tossici armati non beccava l’innocuo viandante. Roma apparteneva ancora al vivibile — oggi francamente non più. La prevalenza del cattivo ha insozzato tutto, e nella vita-mala non sopravvive la buona.
E le estati, le estati crepitanti di mosche, quando nei campi erano al lavoro le bestie bovine tenute al riparo da ogni igiene, ruminanti in simbiosi con la famiglia umana, e i trattori non versavano a tonnellate le loro applaudite deiezioni gassose nei solchi inquinati e anche quei lugli e agosti anneriti di mosche ho fatto in tempo a conoscerli tra 1930 e 1950, e non pareva arcano né senza compenso patirli. Nelle vacanze prossime alla grande città industriale, i paesini agricoli intatti erano la monarchia assoluta di Baal Zebùb il signore delle mosche, che dominava per il piacere di castigarci.
Là dove si passava il confine del rumine il regno del Dittero alato cominciava e trovava un risibile ostacolo solo nella diabolica ingegnosità umana. Il regime fascista mostrava alle scolaresche documentari dove mosche ingrandite fino al dinosauro erano zelanti trasportatrici di escrementi vivissimi direttamente dai cessi ai tavoli appetitosamente apparecchiati nei tinelli e nelle cucine delle mamme casalinghe che di rado lasciavano errare altrove lo sguardo.
André Gide raccontando di una città nordafricana ricordava un quarto di bue dissanguato halàl pendente in una macelleria, interamente verniciato di nero da milioni di mosche inviate dall’usurpatore Baal Zebùb. Il pio macellaio, a richiesta, passava uno scopino incadaverito di mosche, soffiava sulla carne e tagliava al fortunato cliente la bistecca pronta.
Le mosche di qua erano contrastate dalle trappole del furbone umano, che le costringevano a una morte lenta lenta e tragica. Le facevano annegare nei vapori di aceto del Nebiolo e sfrigolare per ore incollate a una striscia velenosa come in un racconto di Poe. La nuvola di Flit moschicida era respirata anche da noi ragazzuoli mentre imparavamo le prodezze del Duce nell’Agro Pontino. La locuzione corrente “dare il Flit” a qualcuno, significava eliminarlo fisicamente.
Mi pare sia in Feria d’agosto di Cesare Pavese l’osservazione geniale che i soli autentici ricordi sono quelli diventati simboli, richiamabili in ogni momento per la loro forza di mito. E Pavese è indissociabile dall’estate, nonostante le altre stagioni presenti nei romanzi e nei versi. E forse l’Estate è il mito di ciascuno, da Baudelaire a Paolo Conte — uno spruzzo di luce e di blu nel grigio amaro delle esistenze comuni.
Per risuscitare in me intangibile la vita del Virgilio bucolico e il ritorno esatto dai campi della prima Egloga, in una campagna piatta di robinie e di salici, mi basta rievocare il nome del paese che per molti anni mi fu la magica scatola di quelle memorabili letture inseminatrici.