“CERTE BEATIFICAZIONI DI DALLA SONO ECCESSIVE E LONTANE DALLA REALTÀ” – DARIO SALVATORI: “CON LUCIO LA COSA FUNZIONAVA COSÌ. SE PARLAVO DI LUI COME IL PIÙ GRANDE CLARINETTISTA BIANCO DOPO BENNY GOODMAN, NON METTEVA BOCCA. AVEVO DETTO LA COSA GIUSTA. SE QUALCHE VOLTA LO CRITICAVO, MI TELEFONAVA PER SPIEGARMI COSA NON AVEVO CAPITO” – “È STATO GENEROSO MA PREPOTENTE, AMICHEVOLE MA DANNATAMENTE ASSERTIVO. E POI BUGIARDO. BUGIARDISSIMO” – IL NOMIGNOLO LUCIO “PALLA”, LA DIATRIBA CON MORANDI A SANREMO E IL SINGOLO “MERDMAN” - VIDEO
Dario Salvatori per Dagospia
Lucio Dalla ha rappresentato una sintesi naturale della canzone italiana, pur subendo influenze americane di notevole intensità. Autentiche sbandate, come quella per Prince.
Artista avido in quanto campione della diversificazione, prova ne sia che un giorno è stato musicista, il giorno dopo regista, firma balletti, opere liriche, colonne sonore, libri, programmi tv. Bulimia sempre accettata ma mai richiesta.
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Tutto questo attraversando artisticamente sette decadi all’interno delle quali ha lasciato il segno. Non capita a tutti. Sul privato, sull’esistenziale, sulle scelte di vita, Dalla è stato meno cristallino, rispetto all’atteggiamento sorgivo che ha caratterizzato la sua vita artistica. E’ stato generoso ma prepotente, amichevole ma dannatamente assertivo. E poi bugiardo. Bugiardissimo.
Mi capitò di assistere alla riunione, dopo quarant’anni (40!) dei Flippers, popolare gruppo specializzato in cha-cha-cha (Massimo Catalano alla tromba, Romolo Forlai al vibrafono, Franco Bracardi al piano, Maurizio Catalano al basso e Fabrizio Zampa alla batteria), formazione di cui aveva fatto parte in qualità di clarinettista fra il 1961 e il 1962.
Furono i Flippers a coniare il nomignolo Lucio Palla, in quel periodo decisamente aderente. La riunione avvenne grazie all’appassionato Paolo Marinozzi a Montecosaro, in provincia di Macerata.
Lucio era impegnato in sala di registrazione a Milano, ma per salutare e festeggiare insieme ai suoi amici, diede una pausa allo studio e accompagnato da un autista raggiunse Montecosaro, con l’inseparabile clarinetto.
LUCIO DALLA - 40ENNALE FLIPPERS
Foto, abbracci, riprese video, due brani dixieland e poi di corsa di nuovo a Milano. Dove si accorse di aver lasciato il clarinetto a Montecosaro. Certamente un gesto di stima e di amicizia. Ma il suo carattere aveva altri risvolti.
Per qualche anno Lucio Dalla abitò a Roma, a Trastevere, in vicolo del Buco, ad un centinaio di metri da dove abitavo io, via S.Francesco a Ripa, lato S.Cecilia. Talvolta ci si vedeva, soprattutto nei jazz club.
Quelli sono stati gli unici anni in cui ebbi l’opportunità di avere il suo telefono. Il fisso, ovviamente. I cellulari non esistevano. In tanti anni, sia nei giornali, alla radio, in tv, in qualche libro, mi è capitato di parlare di lui.
La cosa funzionava così. Se io parlavo di lui come il più grande clarinettista bianco dopo Benny Goodman o come il nuovo Cab Calloway, Lucio non metteva bocca. Avevo detto la cosa giusta. Se qualche volta lo criticavo, cioè “sgarravo”, mi telefonava per spiegarmi cosa non avevo capito. Lo fece due, tre volte e allora risposi: “Lucio, o ci sentiamo sempre perché siamo amici e comunichiamo ma se mi tiri le orecchie ogni volta che dico qualcosa che non ti garba, non mi sta bene. Non sono sul tuo libro paga”.
Mi resi conto che tutti i cantanti, soprattutto i più noti, intendono l’amicizia e la stima dall’adorazione in su. La diatriba continuo: “L’adorazione non mi viene bene, ma se proprio dovessi adorare qualcuno adorerei Miles Davis, Michael Jackson, Mick Jagger, John Lennon, Chuck Berry, Duke Ellington e forse qualche altra dozzina di artisti.” Questo lo dissi alla radio e dunque peggiorai la mia posizione.
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Il Dalla dispotico venne fuori in tante altre occasioni. Nel 1993 aveva pubblicato l’album “Henna”, da molti considerato il suo capolavoro, che però si rivelò infelice, soprattutto perché si proveniva da “Cambio”(1990), oltre 1 milione e 500 mila copie vendute.
A tutto il suo staff, Dalla comunicò che il singolo da traino sarebbe stato “Merdman”, ovvero la storia surreale di un marziano coperto di merda che diventa un’icona di massa. Tutti suggerirono “Henna”, brano lirico e di grande suggestione. Non ci fu nulla da fare. Vinse lui. Anzi, perse, visto che l’album si fermò a 300 mila copie.
Ma non bastò. Per promuovere il disco, Dalla organizzò un piccolo showcase dentro un treno e una volta arrivato a Roma, si presentò senza preavviso a casa dei giornalisti non presenti sul treno per farglielo ascoltare.
Lui lo definì un gesto dada, ma che alla fine somigliò più ad un dada-umpa. Ammettiamolo, era il suo lato più insopportabile. Per questo appaiono eccessive e lontane dalla realtà certe beatificazioni che appaiono nei media in questi giorni. Un distico elegiaco che non consente contraddittorio.
Veniamo al 2009. Premio Lunezia. La direzione artistica decide di premiare il libro “Gli occhi di Lucio”, scritto da Marco Alemanno e Dalla stesso, contento del riconoscimento per il giovane artista che lui definisce “attore, cantante, compositore, musicista, fotografo, sceneggiatore, regista e scrittore”. Dalla rimane sul palco pochi minuti preferendo cedere il palco ad Alemanno.
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I due sono arrivati in Porsche, Lucio alla guida, Alemanno nel sedile anteriore e sull’ improbabile sedile posteriore si accovaccia come può Michele Mondella. In quel periodo Dalla amava vestirsi come i grandi poeti napoletani di fine Ottocento e primo Novecento: pantaloni rigati, panciotto, con l’orologio da taschino ben in vista e la fondamentale “canna” (il bastoncino) da passeggio.
Un look derivativo e stilisticamente inarrivabile quello di Salvatore Di Giacomo (1860-1934) – “Era de maggio”, “A Marechiare”, “Catarì”; Ernesto Murolo (1876-1939) – “Pusilleco addiruso”, “Suspiranno”, “Napule ca se ne va”; Libero Bovio (1883-1942) - “Chiove”, “Zappatore”, “’O paese d’ ‘o sole”.
Al paziente Mondella il compito di ritrovare la canna che quasi ogni sera Lucio smarriva. Il giorno dopo vedevi lo smoccolante Mondella parlare da solo nel percorrere a ritroso, fra camerini, palco e ristorante, il percorso fatto da Lucio per riportare a casa la preziosa canna.
Festival di Sanremo 2012. Gianni Morandi è nuovamente il direttore artistico della rassegna. Invita il suo vecchio amico che lo informa che ha appena scritto una canzone insieme a Pierdavide Carone, “Nanì”. Ma non vuole cantare e nell’impeto della “indisciplina creativa” preferisce dirigere l’orchestra.
Gesto irrituale per un cantante ma a Dalla è permesso tutto. In realtà è microfonato (infatti canta nel ritornello) e ha una camera fissa piazzata su di lui. La canzone non convince nessuno, nemmeno come epitaffio, visto che Dalla ci lascerà due settimane dopo, il giorno successivo ad un suo concerto a Montreux, Svizzera.
L’anno prima, a diatriba dimenticata, fuori da un concerto, Lucio mi dice che ha scritto una nuova canzone, per ora con il solo testo. Dedicata a Nino Calebotta, il non dimenticato pivot della Minganti, poi Virtus, bandiera del basket petroniano. La sua passione per le figure iconiche appare sovente nelle sue canzoni, quasi dei bio-pic apocrifi (“Cos’è Bonetti?”, “Nuvolari”, “Caruso”).
Calebotta fu il primo giocatore di basket a superare i due metri (2,04), era nato a Spalato, venne ingaggiato per una Lambretta e dal 1953 al 1968 fu l’idolo della Sala Borsa, la Scala del basket.
Aggiunse soltanto che nel testo faceva riferimento alla sua vita da “freak” (creature disadattate, spesso deformi, circensi, predisposte al suicidio), insomma una ricostruzione tutta di fantasia. Alla fine finimmo per punzecchiarci di nuovo. Io sostenevo che la volta in cui Calebotta mise a segno 59 punti (non esisteva il tiro da tre punti) accadde nel 1955. Lui era disposto a giurare che accadde nel 1956. La sentiremo mai?
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