PRENDERE IL THOREAU PER LE CORNA - L’APOSTOLO AMERICANO DELLA DISOBBEDIENZA CIVILE È MOLTO CITATO MA POCO LETTO, ANCHE IN TEMPI DI PANDEMIA. MA LA RETORICA STUCCHEVOLE DEI BORGHI ABBANDONATI E DEL DISTANZIAMENTO SOCIALE DA PRATICARE IN MEZZO ALLA NATURA C'ENTRANO QUALCOSA CON L'AUTORE DI "WALDEN"? MANCO PER NIENTE. LO SCRITTORE ERA UN ASCETA VERO E UN RIBELLE: AVEVA SCELTO LA VITA SELVAGGIA MICA LE CONSOLAZIONI “GREEN” E CHIC DELLA CAMPAGNA…
Vittorio Giacopini per “il Venerdì di Repubblica”
Nel borsino delle voghe para-culturali di tendenza, la figura di David Henry Thoreau - l' apostolo della disobbedienza civile, il cantore selvaggio della vita nei boschi - torna in auge a fasi regolari, ambiguamente.
Molto citato, pochissimo letto davvero e inteso a fondo, l' hanno trasformato in un' icona à la page, inoffensiva, o in un marchio di comodo, giustificante. Il "re barbaro" - così lo chiamava Stevenson - scrollerebbe le spalle, probabilmente piuttosto incredulo, certamente disgustato, spazientito. In suo nome ne hanno dette abbastanza di tutte, dalla giustificazione filosofico-politica dell' evasione fiscale e altre piccole-grandi truffe contabili, alla celebrazione elegiaca dell' esodo dalle grandi città verso la malìa dei bei casali finemente ristrutturati in campagna o dentro l' incanto dei "piccoli borghi".
In tempi di coronavirus & smart working il ritornello sta diventando addirittura stucchevole: "l' Italia è piena di borghi abbandonati, da salvare. Abbiamo un' occasione unica per farlo"; "Nei boschi, nei campi, l' uomo è solo una presenza tra tante, non c' è rischio di movida, il distanziamento è un dato di fatto".
Dopo l' utopia pret-à-porter del bosco verticale e altre bislacche trovate di urbanistica, si passa - con dubbia disinvoltura - alla "fase due": la pandemia come grande occasione di teorizzazione e santificazione del sogno (signorile, però) del "voglio vivere in campagna" (con buona pace dei vecchi Marx-Engels e dei loro - sacrosanti - sberleffi sull' idiotismo della "vita rurale"). Via dalla pazza folla, è giunto il momento.
Pressato dal lockdown, dagli affanni di carriere e attività più o meno immateriali e smart, preso da ennui per il rito trito e ritrito dell' aperitivo rinforzato o dell' apericena, il topino di città vuol farsi topino (e signorotto) di campagna, con vista su colli e valli e cangianti filari di vigna, e camino scoppiettante e, naturalmente, pannelli solari e cappotto termico da ecobonus, cose così.
Ma la "récupération" di Thoreau in chiave postmoderna New Age o in salsa green (per non parlare del tentativo di eleggerlo santo patrono degli evasori fiscali), è impraticabile. L' uomo era di ben altra pasta e indole - intrattabile - e nei sui scritti non c' è un filo di elegia, consolatoria. A modo suo era un asceta epicureo, e un vero ribelle. Stevenson, che l' aveva intuito benissimo, l' ammirava per questo: «Il vero tema di Thoreau era il miglioramento di sé, combinato a una critica ostile della vita così quale è nella nostre società» scriveva in Il re barbaro, un breve testo ripubblicato dalle Edizioni dell' asino qualche anno fa.
Altro che buen retiro in campagna, nel casaletto. A Walden, Massachusetts, Henry David Thoreau s' era costruito una cabin con quattro assi in croce, tra i boschi di pini, e alla resa dei conti la sua non era certo una fuga, piuttosto una sfida. Aveva scelto di appartarsi nel «grande mare della solitudine dove si svuotano i fiumi della società», per dichiararsi nemico giurato di un' intera struttura sociale, e di uno stile di vita. «La maggior parte di ciò che i miei concittadini stimano buono io credo con tutta l' anima che sia invece cattivo; se c' è qualcosa di cui mi pento, nove volte su dieci è della mia buona condotta».
Libri come Walden e La disobbedienza civile sono la cronaca di questo conflitto tra un uomo e gli schemi. Il vero motivo della sua secessione era non pagare tributo a uno Stato «che compra e vende, come bestie, uomini, donne e bambini» ma - lo sapeva - la società prepara sempre vendetta contro gli irregolari e «un uomo, dovunque vada, sarà sempre inseguito dagli altri uomini che lo acchiapperanno con le loro sporche istituzioni e, se possono, lo costringeranno ad appartenere alla loro disperata massoneria».
Quanto alla natura, aveva scelto la vita selvaggia e l' estremo, non certo le consolazioni "carine" della campagna. Anche i due testi ripubblicati adesso da La Nuova Frontiera (Una passeggiata in inverno e Camminare, tradotti - benissimo - da Tommaso Pincio, illustrati - benissimo - da Rocco Lombardi) vanno letti in questa luce, e in questa chiave ribelle.
Al solito, Thoreau parte dal suo imperativo di metodo - «Guarda le cose!» - per introdurci in un' altra dimensione, e in un altro mondo. Nei fondi boschi del Maine, in pieno inverno «la natura confonde quel che in estate distingue il giorno è soltanto una notte scandinava. L' inverno è un' estate artica». Se parla di selve è per introdurci a un rito di passaggio che prevede di tagliare tutti i ponti con la società (per magari farci ritorno, dopo, più arrabbiati e coscienti, con gelida furia disobbediente). E se usa la parola "rigenerarsi", parla sul serio, fuori da ogni narcisismo terapeutico e da quell' apprensione per il sé che oltre un secolo dopo il suo compatriota Christopher Lasch avrebbe diagnosticato come il più tipico dei mali (post)moderni.
«Quando voglio rigenerarmi, mi metto in cerca della foresta più buia e della palude più intricata, più impenetrabile e, per la gente di città, più tetra. Mi addentro in una palude come in un luogo sacro, un sancta sanctorum. Vi si percepisce la forza, il midollo della Natura. Il bosco selvaggio ricopre il terriccio vergine e quello stesso suolo è benefico, sia per gli uomini sia per gli alberi».
Voltate le spalle alle città, e ai borghi, e ai casolari, all' uomo non resta altro che camminare, ma fuori da ogni pista battuta, e senza mappe. Il sarcasmo di Thoreau contro la retorica della vita all' aria aperta intesa come sport o svago salutista è inesorabile: «Non siamo che pavidi crociati, le nostre spedizioni non sono che scampagnate, al termine delle quali, a sera, torniamo sempre al vecchio focolare da cui siamo partiti. Metà del cammino consiste nel ripercorrere i nostri passi. Dovremmo invece imbarcarci anche nella più breve delle passeggiate con spirito avventuriero e imperituro, quasi non si dovesse tornare mai più; pronti a rispedire il cuore imbalsamato, come una reliquia, ai nostri regni desolati».
Il suo invito, piuttosto, era a un viaggio diverso, senza nostos, ritorno. Siamo «tutti figli della nebbia», diceva, siamo confusi, ma dovremmo spezzare gli ormeggi, andare a Ovest. Alludeva a un West metafisico, e abissale: «L' Ovest di cui parlo non è che un altro nome con cui chiamare la Natura selvaggia. I nostri antenati erano selvaggi.
La storia di Romolo e Remo allattati da una lupa non è una favola priva di senso». Naturalmente si poneva anche lui il problema del futuro, dentro il presente. «Non possiamo permetterci di non vivere dentro il presente ma speranza e futuro, per come la vedo io, non vanno cercati nei campi coltivati e nei prati all' inglese, né si trovano in villaggi e città, ma nelle paludi impervie e instabili».
Per Thoreau la contraddizione essenziale è l' opposizione tra il mondo e la società.
Anche l' elogio della natura selvaggia, e delle paludi, è una forma estrema di disobbedienza e rifiuto, una secessione dalla società: «Voglio prendere la parola in favore della Natura, della libertà assoluta e della vita selvatica, contrapposte a una libertà e a una cultura soltanto civili; considerare l' uomo un abitante della Natura o comunque una sua parte integrante, anziché un membro della società.
Voglio fare una dichiarazione estrema e pertanto categorica; la civiltà ha fin troppi paladini: che se ne occupino i pastori e i comitati scolastici o chiunque altro tra voi».