ETEROGENESI DEL PINI – IL RACCONTO DI UNA DONNA OPERATA ALLA CLINICA CAPITANIO DI MILANO DA GIORGIO MARIA CALORI, DA IERI AI DOMICILIARI: ''MI DISSE CHE ERA UN’OPERAZIONE FACILE, DA ALLORA SONO INVALIDA AL CENTO PER CENTO'' – LUI AVEVA FRETTA, DOVEVA ANDARE A SCIARE, E LE DISSE: “DOVREI GIÀ ESSERE IN PISTA A QUEST’ORA”
Tiziana De Giorgio per la Repubblica
«Prima di entrare in sala operatoria gli ho chiesto quanto sarei dovuta rimanere sotto i ferri. "Signora, la neve mi aspetta, dovrei già essere sulle piste a quest'ora", mi ha risposto con un mezzo sorriso».
Elena (il nome è di fantasia) aveva 47 anni quando il primario del Pini Giorgio Maria Calori, da ieri ai domiciliari, le ha messo una protesi all'anca alla clinica Capitanio di Milano. Dopo quell' intervento, non ha camminato mai più. «Quel suo modo di fare supponente - racconta - che mi ha sconvolto la vita, non lo scorderò mai».
Elena, com'è finita alla clinica Capitanio?
«Nel 2010 mi sono rotta il femore. Un incidente banalissimo a febbraio: sono scivolata sul marmo nell' androne di casa. La signora delle pulizie del mio condominio non aveva avvisato che fosse bagnato».
Ha chiamato l'ambulanza?
«Sì. Sarei voluta andare al Pini ma, per vicinanza a casa, mi ha portato all' ospedale San Carlo. Dalle lastre si è capito che avevo una frattura scomposta.
Mi hanno detto che mi avrebbero ricoverata e che sarei dovuta rimanere con la gamba in trazione almeno fino a lunedì: nessuno poteva operarmi prima, eravamo nel pieno delle feste di carnevale».
Quindi che cosa ha fatto?
«Ho chiamato un medico legale di fiducia per chiedere consiglio su un bravo chirurgo ortopedico a Milano. Con gambe e schiena non si scherza, avevo paura. È stato lui a consigliarmi vivamente Calori».
Come l'ha contattato?
«Mio marito ha chiamato il suo studio chiedendo se avrebbe potuto operarmi al Pini, anche in regime di solvenza. Ha chiesto se fossi coperta da assicurazione. E ha risposto: "Ma scusi, la posso operare in una struttura privata, con una camera privata, gratis.
Venga alla Capitanio, farò l'intervento domani stesso».
È andata così?
«Sono andata la sera stessa. Mi hanno fatto una tac di controllo che diceva che per il resto ero sana. E ho portato la lastra del San Carlo.
Nessun altro esame: hanno detto che avevo bisogno di una protesi all' anca. Calori l'ho visto per la prima volta il mattino dopo, prima di entrare in sala operatoria. È lì che mi ha detto che sarebbe stato velocissimo: doveva partire per la montagna».
Cos' è successo dopo l'intervento?
«Ho iniziato a stare male da subito. Dolori atroci. Il giorno successivo mi sono riempita di ponfi alla schiena, non riuscivo nemmeno a respirare».
Ponfi?
«Mi ha messo una protesi al titanio senza chiedermi se avessi allergie a metalli. Le avevo».
Cos'è successo dopo?
«Mi hanno dimesso dopo poco più di una settimana dicendomi che dopo quaranta giorni avrei potuto togliere le stampelle. Ma io continuavo a soffrire in maniera anomala. Mi sono comprata un girello come quello che usano gli anziani. Non riuscivo a stare in piedi».
Ha avvisato Calori del suo malessere?
«Mi continuava a ripetere che dovevo fare fisioterapia, movimento. Che non mi impegnavo abbastanza. Solo dopo ho capito che ha fatto danni anche in questo».
Cos'ha scoperto, Elena?
«In seguito sono stata ricoverata all'Humanitas, poi al Niguarda. Tutti mi hanno detto che se dopo tre mesi non camminavo la colpa era della protesi, non mia.
Era così: la protesi non solo era stata messa male, forse per la fretta. Ma era anche di bassa qualità».
In che senso di bassa qualità?
«Rilasciava metalli. Un modello gemello, negli Stati Uniti, era già stato ritirato dal mercato per questo.
"Uno schifo", l'hanno definita altri medici. Ma nessuno voleva prendersi la responsabilità di operarmi di nuovo».
Che cosa ha deciso di fare?
«Sono andata a operarmi in Svizzera. "La porti al suo avvocato", mi hanno detto riconsegnandomi la protesi che mi avevano tolto.
Ed è venuto fuori che le concentrazioni di metalli che avevo nei tessuti vicini erano mille volte superiori al normale. Nel 2016 mi hanno asportato un tumore dall' addome di 12 centimetri pieno di metalli».
Com’è la sua vita oggi?
«Sono una donna di 55 anni che vive come un'anziana. Non lavoro più, non cammino più, sono invalida al cento per cento.
Vivo sdraiata su un letto per la maggior parte della giornata, mi muovo su una sedia a rotelle. E aspetto il processo contro di lui. Gli ho fatto causa».