“LE STATISTICHE DICONO CHE QUELLI NATI COME ME HANNO UN FUTURO DIFFICILE E MORIRANNO PER UN’OVERDOSE DI EROINA” – J.D. VANCE, SCELTO DA TRUMP COME SUO VICE, NEL 2016 NEL LIBRO “ELEGIA AMERICANA” RACCONTO' L'INFANZIA TRA POVERTÀ, ABUSI E RISCATTO SOCIALE: “NON MI IDENTIFICO NEI BIANCHI ANGLOSASSONI DEL NORDEST. MA CON I MILIONI DI PROLETARI IRLANDESI E SCOZZESI, CHE NON SONO ANDATI ALL’UNIVERSITÀ, PER CUI LA POVERTÀ È UNA TRADIZIONE DI FAMIGLIA. GLI AMERICANI LI CHIAMANO HILLBILLY (BUZZURRI) O 'WHITE TRASH' (SPAZZATURA BIANCA). IO LI CHIAMO VICINI DI CASA, AMICI E FAMILIARI…”
Estratto dell’introduzione di “Elegia americana”, J.D. Vance (ed. Garzanti)
DONALD TRUMP E JD VANCE ALLA CONVENTION REPUBBLICANA DI MILWAUKEE
Mi chiamo J.D. Vance, e penso che dovrei iniziare con una confessione: trovo l’esistenza del libro che avete in mano piuttosto assurda. Ho trentun anni e sono il primo ad ammettere di non aver realizzato nulla di particolare nella mia vita, perlomeno nulla che dovrebbe indurre un perfetto sconosciuto a sborsare dei soldi per leggerlo.
La cosa migliore che ho fatto, almeno sulla carta, è stata laurearmi presso la facoltà di legge dell’Università di Yale, un’impresa che il J.D. Vance tredicenne avrebbe giudicato ridicola. Ma circa duecento persone fanno la stessa cosa ogni anno e, credetemi, a nessuno verrebbe in mente di leggersi la storia delle loro vite.
J. D. VANCE - ELEGIA AMERICANA
Non sono un senatore, un governatore o un ex sottosegretario. Non ho avviato un’azienda miliardaria né una onlus che ha cambiato il mondo. Ho un lavoro dignitoso, un matrimonio felice, una bella casa e due cani che non stanno mai fermi. Perciò non ho scritto questo libro per raccontare chissà quale successo mirabolante.
L’ho scritto perché fin qui ho seguito un percorso del tutto normale, e non è esattamente ciò che accade alla maggior parte dei ragazzi che sono cresciuti nelle mie stesse condizioni. Vedete, sono nato in una famiglia povera della Rust Belt, in una cittadina dell’Ohio che era cresciuta intorno a un’acciaieria e che non ha fatto altro che perdere posti di lavoro e speranze. Ho un rapporto che definirei eufemisticamente complesso con i miei genitori, uno dei quali a mia memoria ha sempre avuto problemi di droga.
Mi hanno allevato i nonni, che non hanno frequentato alcun liceo; e sono ben pochi i membri della mia famiglia allargata a essere andati all’università. Le statistiche dicono che quelli come me avranno un futuro difficile, e nella migliore delle ipotesi riusciranno a cavarsela senza ricorrere ai sussidi statali; nella peggiore moriranno per un’overdose di eroina, come è capitato soltanto l’anno scorso a decine di ragazzi della cittadina in cui sono nato. Io ero uno di quei ragazzi dal destino segnato.
Ho rischiato di farmi espellere dal liceo. Ho rischiato di cedere all’ira e al risentimento che covavano in tutti coloro che avevo intorno. Oggi la gente guarda me, il mio lavoro e i miei prestigiosi titoli accademici, e dà per scontato che io sia una sorta di genio, perché solo un tipo veramente straordinario avrebbe potuto arrivare a simili traguardi. Con tutto il rispetto che devo ai miei estimatori, penso che questa teoria sia una gran stronzata. Quali che siano i miei talenti, non li ho buttati via solo perché alcune persone particolarmente caritatevoli sono venute in mio soccorso.
Qui vi racconto la vera storia della mia vita, ed è la ragione per cui ho scritto questo libro. Voglio che la gente sappia cosa vuol dire arrivare quasi a perdersi, perché può succedere a tutti. Voglio che sappia come vivono i poveri e qual è l’impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cos’ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia. Voglio che capisca in cosa consiste realmente il cosiddetto «ascensore sociale».
E voglio che capisca una cosa che ho scoperto solo di recente: chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dietro per sempre i fantasmi della vita che si è lasciato alle spalle. C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati».
A volte queste macro categorie sono utili, ma per capire la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università.
Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai.
Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari. Gli americani di origine scozzese e irlandese costituiscono uno dei gruppi più caratteristici della popolazione del nostro paese. Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentino la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture familiari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate».
Questo radicamento culturale si accompagna a molte caratteristiche positive – estrema lealtà, dedizione totale alla famiglia e al paese – ma anche a molte caratteristiche negative. Non ci piacciono gli estranei e i diversi, anche se la differenza sta solo nel loro aspetto, nel loro modo di agire o, in particolare, nel loro modo di parlare.
Per capirmi, dovete rendervi conto che sono veramente un hillbilly di origine scozzese e irlandese. Se l’etnia è una faccia della medaglia, la geografia è la faccia opposta. Nel XVIII secolo, quando la prima ondata di immigrati scozzesi e irlandesi sbarcò nel Nuovo Mondo, la grande attrattiva ai loro occhi era costituita dai monti Appalachi.
Pur trattandosi di una regione sterminata che si estende dall’Alabama alla Georgia del Sud, e dall’Ohio ad alcune parti del Nord dello stato di New York, conserva una coesione culturale straordinaria. I miei familiari, che vengono dalle colline del Kentucky orientale, si autodefiniscono hillbilly, così come il musicista Hank Williams Jr. – nato in Louisiana e residente in Alabama – in uno dei suoi inni ai bianchi delle zone rurali, A Country Boy Can Survive.
È stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è un luogo di infelicità. Non c’è dunque da sorprendersi se siamo dei gran pessimisti.
Anzi, come rivelano i sondaggi, i proletari bianchi sono il gruppo sociale più pessimista d’America. Più pessimisti degli immigrati latinoamericani, molti dei quali vivono in condizioni di povertà assoluta. Più pessimisti dei neri, le cui prospettive materiali sono costantemente inferiori a quelle dei bianchi. Mentre la realtà giustifica una certa dose di cinismo, il fatto che gli hillbilly come me vedano più nero di tanti altri gruppi – alcuni dei quali decisamente più indigenti – indica che la nostra vita si è complicata.
Si è molto complicata. Siamo socialmente più isolati che mai, e trasmettiamo questo isolamento ai nostri figli. La nostra religione è cambiata: adesso è costruita intorno a chiese che straripano di retorica emotiva ma non forniscono il supporto sociale che permetterebbe ai ragazzi poveri di affermarsi nella vita. Molti di noi sono stati espulsi dalla forza lavoro o hanno deciso di non trasferirsi altrove per cercare nuove opportunità. I nostri uomini soffrono di una peculiare crisi di virilità: alcuni tratti specifici della nostra cultura ostacolano il successo in un mondo che sta cambiando rapidamente.
Quando cito la situazione in cui versa la mia comunità, ricevo spesso una spiegazione che suona più o meno così: «Certo, le prospettive per i bianchi della classe operaia sono peggiorate, J.D., ma tu stai confondendo la causa con l’effetto: divorziano di più, si sposano di meno e sono meno felici perché le loro prospettive economiche si sono ridotte. Se avessero più occasioni di lavoro, migliorerebbero anche tutti gli altri aspetti della loro vita».
Un tempo la pensavo anch’io così, e da ragazzo volevo crederci a tutti i costi. Ha senso. Essere disoccupati è stressante, e non avere abbastanza soldi per vivere lo è ancora di più. Quando il centro manifatturiero del Midwest industriale si è svuotato, il proletariato bianco ha perso sia la sicurezza economica sia la stabilità materiale e familiare che vi si accompagna. Ma l’esperienza può essere una maestra severa, e a me ha insegnato che questa storia dell’insicurezza economica è, a dir poco, incompleta.
Alcuni anni fa, l’estate prima di iscrivermi alla Yale Law School, cercavo un lavoro a tempo pieno per finanziare il mio trasferimento a New Haven, nel Connecticut. Un amico di famiglia mi ha proposto di andare a lavorare con lui in un’azienda di distribuzione di piastrelle che aveva sede poco lontano dalla mia città natale.
Le piastrelle sono pesantissime, da un chilo e mezzo a tre chili l’una, e sono imballate quasi sempre in cartoni da otto a dodici pezzi. Il mio compito principale era caricare le piastrelle su un pallet e prepararlo per la spedizione. Non era un lavoro leggero, ma mi pagavano 13 dollari all’ora e avevo bisogno di quei soldi, perciò ho accettato la proposta cercando di fare più straordinari che potevo. [....]
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