NON MI SPEZZO MA MI ADEGUO - IL PUBBLICO È PIÙ IGNORANTE E IL TEATRO DEVE ABBASSARE IL LIVELLO – IL DRAMMATURGO TOM STOPPARD AMMETTE CHE ULTIMAMENTE HA DOVUTO SEMPLIFICARE UN SACCO DI BATTUTE
Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica”
Che gli appassionati del palcoscenico non conoscano più i personaggi principali di Shakespeare è tutto da dimostrare. Di certo chi va al cinema a vedere un blockbuster si imbatte in dialoghi molto più scadenti di quelli degli anni Ottanta
carl djerassi (a destra) elo scrittore tom stoppard
Domanda-chiave per chi ama il cinema e il teatro: il pubblico è divenuto più ignorante? Si è spenta la sua facoltà di catturare i significati di un testo? Chi scrive dialoghi per film e pièce teatrali deve tenere conto della preparazione dei fruitori? È giusto o è insensato semplificare una drammaturgia o una sceneggiatura per una platea che si dimostra incolta? Non corre il rischio, un’operazione del genere, di dirottare l’inventore di una trama in strategie forzate e devianti?
Provoca interrogativi come questi la polemica lanciata sul Times dal celebre drammaturgo inglese Tom Stoppard, che parlando del suo play The Hard Problem, appena presentato al National Theatre di Londra, confessa di aver dovuto aggiustare a più riprese le battute affinché il pubblico capisse ogni allusione. «Mentre negli anni Settanta gli spettatori avevano certe conoscenze basilari, per esempio dei capolavori di Shakespeare, oggi connettersi con loro è un’impresa disperata», si lamenta Sir Tom, aggiungendo di essersi sentito obbligato a riscrivere una scena anche tre volte dopo averla testata nelle anteprime, poiché nessuno riusciva a seguirne i riferimenti.
Füssli Re Lear caccia Cordelia
Poi ha rammentato che nel ‘74, di fronte al suo play Travesties , gli astanti avevano colto al volo la sua evocazione (proiettata in un contesto diverso) della figura di Goneril, tratta da Re Lear.
Dopo l’intervento di Stoppard sul Times è arrivato il Guardian a riprenderne gli spunti, canzonando il drammaturgo come “troppo intelligente” per noi gente comune, e pubblicando una buffa conversazione immaginaria dove il nome Goneril, secondo l’ignorante di turno, equivale a quello di una malattia venerea. Come dire: non attribuiamo l’oscurità di testi eccessivamente eruditi al declino della scolarizzazione. Curiamoci piuttosto di alleggerire i compiacimenti intellettuali.
HABEMUS PAPAM PARTITA PALLAVOLO
D’altronde si può valutare come un’iniziativa di per sé ignorante la pratica di accusare il pubblico a priori d’ignoranza, affermerebbe Pasolini, persuaso a suo tempo della necessità di prescindere da giudizi culturali applicati all’uomo medio per realizzare un film. Se un autore lo facesse, sosteneva col consueto piglio etico lo scrittore-corsaro, «compirebbe un’immoralità nei confronti della libertà espressiva, sia la propria sia quella dello spettatore».
Su un versante analogo sembra collocarsi Francesco Piccolo, che ha firmato le sceneggiature di Habemus Papam, Il capitale umano e Il nome del figlio. Piccolo spiega che non c’è motivo al mondo per tacciare d’ignoranza una platea: «Scrivendo non mi pongo mai questo falso problema, e trovo assurdo pensare che il pubblico, una volta, fosse migliore di adesso. È la solita leggenda del passato preferibile al presente ».
marisela federici francesco piccolo
Guardando all’indietro, il teatro didascalico-politico del secondo dopoguerra definiva i testi iper-colti o criptici come manifestazioni di un’anti-democratica arroganza. Secondo Brecht la lotta all’ignoranza, in teatro, è «l’arte di rendere la verità maneggevole come un’arma». Essendo imprescindibile la divulgazione del vero (meglio: di ciò che l’autore considera tale), le parole che trasmettono il messaggio vanno rese leggibili dal primo impatto. D’altra parte nell’antico teatro elisabettiano, dove non si contemplavano steccati fra rappresentazione colta e popolare, il pubblico si agitava, beveva, mangiava e chiacchierava rumorosamente durante gli spettacoli, lontano dall’idea che la performance fosse un impegno che richiede a chi assiste una sapienza concentrata e totale. In Shakespeare le parole volano leggere, profonde e dirette.
Detto questo il più recente cinema blockbuster ha di sicuro le sue colpe, avendo provocato al pubblico più accorto nostalgie e perplessità nel constatare il peggioramento dei dialoghi in film di genere come la fantascienza o l’horror. Pur restando in un ambito che non si pretende colto, la grossolanità degli scambi di battute in Avatar, del 2009, sancisce un crollo rispetto a quelli della saga di Star Wars, anni Settanta-Ottanta.
E un buon prodotto fanta-orrorifico come La cosa di John Carpenter, 1982, offre testi di sostanza filosofica se paragonati a quelli del suo ignobile prequel uscito nel 2011. Ma il cinema, si sa, ubbidisce a leggi differenti dal teatro, coinvolgendo un’audience immensamente più vasta.
In campo teatrale, tuttavia, è arduo assumere come motore di una controversia sull’ignoranza il fatto che un lavoro di Stoppard debba essere accessibile a chiunque. Il noto drammaturgo costruisce play intertestuali, come quello con cui ha raggiunto la fama una cinquantina d’anni fa, Rosencrantz e Guildenstern sono morti : lo spettatore che ignora l’identità di questi due personaggi (due cortigiani ritagliati dall’ Amleto) avrà gravi difficoltà nel recepire l’opera di Stoppard.
Interi filoni drammaturgici si nutrono di una sorta d’intelligenza “fine a se stessa”, e il geniale Stoppard è un esponente sovrano di questa tendenza. Però il teatro è anche altro, sottolinea il nostro Fausto Paravidino, giovane e premiato autore che è stato “dramatist in residence” al Royal Court Theatre di Londra, la più anticommerciale e ardita fra le ribalte inglesi: «Non mi sorprende il disappunto di Stoppard, abile in sottotesti e giochi di rimandi a tavolino. Invece io, che sono teatrante e quindi allievo di Shakespeare, strutturo le mie pièce in più livelli per comunicare con un’unica platea, che include il servo e il re».
Bisogna inoltre soppesare il contenuto di una citazione, sostiene Stefano Massini, applaudito artefice della Lehman Trilogy in scena al Piccolo di Milano con regia di Ronconi: «I social network hanno buttato nel guazzabuglio delle chat folle di frammenti di Dante e Leopardi. Siamo immersi in un gigantesco bagnomaria di citazioni collettive, e se tutti citano continuamente tutto la complessità dell’effetto sarà nulla». Al giorno d’oggi, insomma, citare può voler dire sbandierare la banalità di un nozionismo liquido.
Certamente non è questo il caso del sofisticato e cerebrale Stoppard. Ma la questione principale resta un’altra: ovunque il teatro, per vivere, dovrebbe evitare recinzioni modellate su target rigidamente “colti”. Persino lo spettatore meno informato, segnala il critico Antonio Audino in una discussione che ha infuocato la rete, gode del pieno diritto di vedere spettacoli ben decifrabili e anche di ottima qualità, senz’assimilare per forza la nozione di “popolare” alle più becere forme d’intrattenimento.