QUANT’ERA FIGO GARIBALDI CON I JEANS – INSIEME A GABRIELE D’ANNUNZIO ANTICIPO’ MODE E COSTUMI – I PANTALONI IN "TELA DI GENOVA", DA QUI JEANS, CONSERVATI NEL MUSEO DEL RISORGIMENTO – UN LIBRO, "LA STOFFA DELL'ITALIA", RIPERCORRE LE SCELTE D’ABBIGLIAMENTO CHE HANNO ANTICIPATO GLI STILISTI DI OGGI - L’AUTARCHIA DEL FASCISMO STIMOLO’ NUOVI PRODOTTI
Roberta Scorranese per il Corriere della Sera
Il primo paio di jeans di cui abbiamo notizia non proviene da una campagna pubblicitaria o da un catalogo di moda ribelle degli anni Settanta: si trova a Roma nel Museo del Risorgimento e apparteneva a Giuseppe Garibaldi, che ce lo ha lasciato quasi intatto (toppa mal rammendata a parte).
Questo piccolo aneddoto potrebbe essere un buon viatico alla lettura de La stoffa dell' Italia , volume documentatissimo e di gradevole lettura firmato da Emanuela Scarpellini, docente all' Università di Milano. È un lavoro molto accurato che ripercorre la moda italiana dal 1945 a oggi, ma sconfinando anche in altri orizzonti temporali, per esempio nell' epoca del fascismo o ai primi del Novecento.
I jeans di Garibaldi (citati da Scarpellini) sono una metafora di questa ricerca pubblicata da Laterza: noi italiani abbiamo una percezione della nostra moda molto spettacolarizzata e mediata dal marketing, ma parecchi dettagli (economici, culturali e sociologici) restano semisconosciuti. Per esempio, non tutti sanno che nel secolo scorso le nostre macchine per cucire facevano concorrenza alle più famose marche americane, superandole per compattezza ed economicità. Che «già nel 1900 l' Italia era arrivata a produrre oltre cinquemila tonnellate di preziosa seta greggia e riuscì a mantenere un tale livello produttivo, tra alti e bassi, [...] fino al 1930».
Intrecciando economia e storia, esempi e numeri, Scarpellini ci aiuta a capire come mai ancora oggi siamo tra i primi al mondo nello stile e nella qualità degli abiti. Non è stata solo una questione di campagne pubblicitarie bene organizzate e nemmeno solo una questione di geniali invenzioni, quali le giacche di Armani o i vestiti interi di Prada. È stato importantissimo il tessuto (in tutti i sensi) produttivo che si è radicato negli anni, nelle grandi aree come in alcune porzioni di città.
Per fare un piccolo esempio, a Milano, la zona De Angeli-Frua è stata per decenni un potente villaggio industriale nella lavorazione degli stampati. Luoghi, persone, cose di cui si è persa la memoria, ma che portano a capire il nostro successo all' estero. E a tutto ciò non fa eccezione l' epoca fascista, dove la moda divenne una sorta di teatro nel quale recitavano scrittori, politici, donne dello spettacolo.
Lo racconta bene Sofia Gnoli in Eleganza fascista . Un volume (pubblicato da Carocci e corredato da belle immagini) che è anche una rievocazione del gusto italiano attraverso episodi e personaggi. Per dire, le battaglie di Lydia de Liguoro (fondatrice della rivista «Lidel») contro il lusso d' importazione straniera; i revival dei costumi regionali con conseguente adozione di colori molto peculiari rimasti anche dopo la Seconda guerra mondiale; oppure il lavoro dell' Ente nazionale della moda e i principi dell' autarchia (era d' obbligo usare tessuti con una percentuale di filati nostrani).
E, ovviamente, i drappi e le tuniche che richiamavano l' antica Roma, una delle tante tendenze che Gnoli riporta a testimonianza di un' epoca che alla moda ci teneva, eccome. E che trovò, forse non a caso, il testimonial più efficace in un intellettuale, Gabriele d' Annunzio. Come a dire: l' Italia sa fare i vestiti perché non ne ha mai fatto una questione solo di stoffe, ma dentro ci ha messo molto di più.