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DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE – “ASTRAL CHAIN” È PURA GIOIA LUDICA, SPETTACOLO NON COMUNE D’ARTE INTERATTIVA TRA ASTRAZIONE, MUSICA TECNO-PROG-METAL E POESIA “ANIME” – CI SONO SPECULAZIONI POLITICHE E SOCIOLOGICHE SULLO SFRUTTAMENTO,  TEORIE SUL RAPPORTO TRA GIOCATORE E PERSONAGGIO GIOCABILE, NOVELLE ESEMPLARI QUASI CELATE NEL RACCONTO PRINCIPALE… – VIDEO

 

 

 

Federico Ercole per Dagospia

 

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Si attua una doppia dimensione della percezione di ciò che stiamo giocando nei videogame di Platinum Games , inventori di coreografie d’azione marziale che sublimano la violenza più iperbolica ma incongrua nella sua negazione di ogni realismo attraverso la grazia e la gravità di una danza che può essere dionisiaca o apollinea.

 

Nelle opere di Platinum Games come Bayonetta, Metal Gear Rising o Vanquish c’è la distruzione  non meccanica, virtuosistica, di orde di nemici che ci induce a credere che oltre il bello di una messa in scena di incomparabile eleganza estetica ci sia un vuoto etico e filosofico, una ripetizione “con stile” di uccisioni di malvagi che funge da scacciapensieri, da passatempo scervellato, da “videogioco e basta”.

 

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Però nel contempo, durante il fluviale scorrere di queste meravigliose e policromatiche acque videoludiche, realizziamo che oltre la forma c’è una sostanza e nel profondo il bello coincide con la verità, secondo la lezione di Keats e la sua urna greca.  Così è anche per Astral Chain, nuova fenomenale opera  di Platinum Games, un videogame manga-sci-fi in esclusiva per Nintendo Switch.

 

CATENE

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I presupposti fantascientifici di Astral Chain ci precipitano in un fosco futuro prossimo durante il quale l’umanità sopravvive in un’immensa metropoli detta Arca a causa dell’inquinamento meta-organico dei Chimera,  alieni extradimensionali che nessuno può vedere e combattere se non un polizia speciale che riesce a controllarne degli esemplari, dopo una specie di lavaggio del cervello, portandoli al guinzaglio di lunghe catene.

 

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 Interpretiamo uno di questi poliziotti, predestinato a controllare più Legion (così si chiamano i mostri imbrigliati, omaggio a Chaos Legion di Capcom, “antica” fonte di ispirazione per gli autori) e svelare le trame di un dramma politico umano ed extra-umano.

 

Le dinamiche ludiche di Astral Chain si fondano sulla duplicità di movimento e d’azione del poliziotto e del suo Legion, prigioniero della Catena Astrale, e sull’affinità che si stabiliscono tra il primo, direttamente controllato dal giocatore e il secondo, solo parzialmente. Si potrebbe pensare a un rapporto cane-padrone poco romantico ma non è così, perché si instaura la consueta danza in stile Platinum,  sebbene  questa volta il ballo non sia solipsistico, ma di coppia, uomo e intelligenza artificiale. La IA non agisce secondo i suoi pre-calcolati fini ma si lascia assecondare da chi conduce il ballo, solo talvolta ritrosa perché d’altronde incatenata al nostro volere.

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Le possibilità, considerando che il protagonista può infine utilizzare cinque Legion diversi, sono innumerevoli e strategiche, facendo leva non solo sui poteri delle diverse creature ma sulla stessa catena che si tende, si arrotola e si allenta diventando un’arma micidiale.

 

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Si rischia la confusione di fronte a tanti modi di giocare, impressionati inoltre dalle forme terribili e bellissime delle creature nemiche, un disorientamento cinetico e psicologico. Perché talvolta si verifica la negazione di ogni punto di vista a causa della duplice frammentazione dell’azione che, sebbene sia solo illusoria (abbiamo sempre il controllo), ci ammalia tanto da convincerci che l’io che gioca sia doppio in una dolce psicosi.

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Giocare/interpretare, mutando senza sosta, è estasi.  Rischiamo quindi di smarrirci nel turbinio delle possibilità offensive di Astral Chain e di affogare deliziati nell’arte dei disegni di Masakazu Katzura (Video Girl Ai) , di considerarlo, beati nella sua terribile e ipercinetica sequenza di azioni, un videogioco senza anima, senza parola senza nessuna idea che non sia solo, anche se magnificamente, ludica.

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Ma ancora una volta non è così, oltre la forma, a meno che il pensiero non vi resti imbrigliato, in Astral Chain ci sono speculazioni politiche e sociologiche sullo sfruttamento,  teorie sul rapporto tra giocatore e personaggio giocabile, novelle esemplari quasi celate nel racconto principale che consentono momenti ludici non violenti e appaganti tra una missione e l’altra: raccogliamo lattine per gettarle in un cassonetto, guariamo i sofferenti dalla loro infezione aliena, portiamo balocchi a bimbi malati, conversiamo, ascoltiamo, cerchiamo, indaghiamo. Portando con noi i nostri utilissimi schiavi da un altro mondo.

 

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Ma non è solo il Legion ad essere uno schiavo, perché come la creatura è sottomessa al poliziotto protagonista quest’ultimo è sottomesso a chi gioca e domina entrambi dal suo mondo di fuori.  E non si tratta di una schiavitù a senso unico ma biunivoca, poiché se fosse chi gioca l’ultima marionetta dominata dalla catena astrale e il Legion il suo numerico burattinaio? E’ sempre complesso il rapporto tra chi gioca e chi è giocato, e Platinum ci fa riflettere ancora su questa magnifica, ma qualche volta no, dipendenza; inducendoci inoltre a dubitare sulla nostra fragile convinzione di libertà, a pensare che il dominio non è che illusione di chi domina e ogni ribellione è possibile.

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LA GIOIA DEL GIOCO

Chi legge può essere indotto a pensare, considerata la volontà di chi scrive di emancipare Astral Chain dalla possibile etichetta di “giochino” senza contenuto, che questo possa essere pesante e noioso, carico di implicazioni filosofiche. Tuttavia ogni speculazione dell’ultima opera di Platinum Games è sotterranea, quasi subliminale, tendendo così a favorire in chi gioca il sorgere di meditazioni a posteriori, nate da pensieri (sogni) rapsodici e istintivi sorti durante l’esperienza.

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Il sorprendente Astral Chain è pura gioia ludica, spettacolo non comune d’arte interattiva tra astrazione, musica tecno-prog-metal e poesia “anime” dove il divertimento e la gioia di giocare in un altrove numerico non sono esclusi ma esaltati affinché siano strumento di una possibile illuminazione o solo di una temporanea felicità tra le tempeste del quotidiano.

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