UN GRANDE FRATELLO PER COMPUTER – ‘1984’, LO SPOT DEL LANCIO MACINTOSH CAMBIÒ IL LINGUAGGIO PUBBLICITARIO: CON LA RECLAME NON SI VENDEVA PIÙ SOLO UNA MERCE MA SI RACCONTAVA LO SPIRITO DEL TEMPO (VIDEO)

1. 1° SPOT APPLE 1984 PER IL LANCIO DEL MACINTOSH
Da ‘youtube.com'

 


2. 30 ANNI FA LO SPOT CHE DIVENNE UN'ICONA
Massimiliano Panarari per ‘la Stampa'

È la nona arte (se consideriamo la fotografia come l'ottava). E soprattutto è quella, per eccellenza, del Secolo breve, dal momento che il paesaggio simbolico e l'immaginario del Novecento molto, moltissimo devono proprio alla pubblicità.

Di acqua ne è passata tanta sotto i ponti dell'advertising all'indomani del primo spot tv «censito», quello dell'orologio Bulova, andato in onda il 1° luglio 1941 all'interno di una trasmissione dedicata al baseball, al costo - qui le fonti storiche divergono - di 5 oppure 9 dollari (che all'epoca non erano bruscolini). E, nel mentre, è mutata la nostra cultura visiva e sociale, anche in virtù di qualche campagna pubblicitaria memorabile mandata in tv. E se il medium di massa che nel secolo scorso la fece da padrone oggi non si sente più tanto bene, nel frattempo lo spot è riuscito a farsi icona.

Trent'anni fa, il 22 gennaio del 1984, entrava nelle case degli americani «1984», lo spot con il quale la Apple lanciava il suo Macintosh, di cui vendette 72 mila esemplari nei 100 giorni successivi all'uscita di questo cortometraggio (e capolavoro) pubblicitario. Ci trovavamo in piena ascesa del postmodernismo nella società e nella cultura Usa e, infatti, a dirigerlo - riprendendone significativamente l'estetica e potendo contare su un budget da capogiro - era stato Ridley Scott, reduce dal suo distopico e strepitoso film «Blade Runner».

La pubblicità, quindi, come specchio dello spirito dei tempi, che si fa rabdomante, perché, come insegnano i principi del marketing post-anni Ottanta, le merci si vendono al meglio se con esse si veicolano stili di vita e modelli comportamentali. Apple, azienda del capitalismo libidinale, ha puntato sempre parecchio su campagne di advertising immaginifiche e dai tratti mistici-new age (nel decennio successivo fece scuola il suo spot-slogan Think different), ma non da meno fu la Nike, creatrice del brand storytelling, con il quale, a fine anni Novanta, reagì alle denunce delle ong che avevano scoperto lo sfruttamento del lavoro minorile da parte di vari suoi subfornitori del Sudest asiatico.

Nel 1996, la corporation di articoli sportivi commissionò all'agenzia di fiducia lo spot «Il bene contro il male», della durata di un minuto e mezzo e con protagonista Eric Cantona, nel corso del quale una partita di calcio viene convertita in una narrazione epico-mitologica dal grande impatto spettacolare. Dall'arena romana di Nike - dove lo scontro sportivo-muscolare e la celebrazione della fitness vengono sublimati in un neo-peplum che mette in scena l'eterno scontro del manicheismo - si può fare un tuffo nel passato alla volta della reinvenzione del focolare domestico mediante i famosissimi spot d'autore buonisti della serie (anzi, del serial) «Dove c'è Barilla, c'è casa».

Lo spot Apple del 1984 era stato collocato in uno degli intermezzi pubblicitari del Super Bowl (amatissimo dalla popolazione Usa), rivelandosi seminale e precorritore anche in questo, e dando il via alla battaglia tra multinazionali e grandi imprese inserzioniste per accaparrarsi quegli slot.

Una disputa fatta a colpi di dollari sonanti, ma anche incrociando le lame della qualità e del potere di suggestione delle campagne pubblicitarie: si pensi, nell'edizione del 2012, ai 120 secondi dello spot della Chrysler, con Clint Eastwood e l'affermazione «It's Half Time in America», che divenne un caso politico, e fu interpretato dagli avversari di Obama come un endorsement a favore del presidente.


E, infatti, la pubblicità deve incarnare lo Zeitgeist (o i mutamenti prossimi venturi) pure della vita pubblica, e non esclusivamente dei paradigmi di consumo. Un esempio: «La forza tranquilla», l'immortale spot del 1981 concepito da Jacques Séguéla per François Mitterrand, compendio della storia e della civiltà di una nazione (ed espressione tratta, in verità, da un discorso di Léon Blum).

Così, anche una certa sinistra si riconciliò con la réclame, tanto che Jack Lang, ipermitterrandiano ministro della Cultura, diede vita in un'ala del Louvre, sempre nei «pubblicitariamente ruggenti» Novanta, al Museo della pubblicità. Perché, si tratti della vendita di rigatoni, high tech o politici, non possiamo non dirci pubblivori.

3. JOBS SCOMMETTE TUTTO SUL COMPUTER CHE SORRIDE
Bruno Ruffilli per ‘La Stampa'

Nel 1984 Apple esisteva già da otto anni, e aveva già lanciato almeno un computer di grande successo. Prodotto in varie versioni, l'Apple II era però invecchiato, sorpassato da concorrenti più economici e veloci (parliamo, è bene ricordarlo, di potenze di calcolo inferiori a quelle di un cellulare attuale da pochi euro).

A Steve Jobs serviva un'idea nuova, e la trovò nei laboratori Xerox di Palo Alto, dove alcuni ricercatori stavano lavorando a computer con un'interfaccia grafica anziché testuale, come era stato fino ad allora. La metafora che avevano inventato era semplice e familiare: la scrivania, le cartelle, i documenti, il cestino. C'era una scatoletta con un pulsante: per aprile il file bastava cliccarci due volte sopra, per spostarlo tenere premuto e muovere l'icona.

Il primo computer di Cupertino con interfaccia grafica e mouse non fu il Mac, ma l'Apple Lisa, presentato nel 1983. Jobs non ne era soddisfatto: voleva una macchina per tutti, non solo per i professionisti. Così, in parallelo al computer che portava il nome della sua figlia abbandonata, fondò un nuovo gruppo all'interno di Apple, diede ai suoi ingeneri uno spazio in un ufficio in disuso e mise sulla porta la bandiera nera dei pirati. Il gruppo lavorò mesi senza sosta, e tra mille peripezie il Macintosh fu pronto solo qualche ora prima della presentazione agli investitori, il 24 gennaio del 1984. Si chiamava come una varietà di mela, rossa e croccante.

Nel primo Macintosh c'è già tutto quello che avrebbe reso Apple famosa in seguito: è piccolo (alla presentazione Jobs lo estrae da una specie di zaino), ha un aspetto amichevole, addirittura parla e fa battute. E, trattandosi di Apple, ecco la solita maniacale cura per il design, l'amore per la musica, un pizzico di cultura alternativa, l'idea che la tecnologia non sia fine a se stessa, ma serva per migliorare ciascuno e tutti. Il Mac non vendette molto, ma annunciò una rivoluzione culturale prima ancora che informatica: il computer usciva da uffici e laboratori e diventava uno strumento creativo.

Negli anni, Microsoft riprenderà l'interfaccia grafica e le finestre, dominando il mondo con Windows, eppure non riuscirà a imitare lo spirito di Apple, che farà il successo di prodotti come l'iPod, l'iPhone, l'iPad. È un mix unico di cultura umanistica e tecnologia, come ricordò Steve Jobs nella sua ultima apparizione pubblica pochi mesi prima di morire.
Oggi il fatturato di Cupertino arriva per la maggior parte da smartphone e tablet, del Macintosh rimangono appena poche tracce nei nomi dei computer. Il nuovo sistema operativo si chiama Mavericks, e il computer che sorride è solo un'icona da cercare su Google.

 

 

WOZNIAK JOBS STEVE JOBS E IL PRIMO MACINTOSH STEVE JOBS E IL PRIMO MACINTOSH SPOT MACINTOSH DI RIDLEY SCOTT SPOT MACINTOSH DI RIDLEY SCOTT

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