BELLOCCHIO, BRUTTO SGUARDO - ''HO INVIDIATO BERTOLUCCI E LITIGATO CON VALSECCHI PER L’ORSO D’ARGENTO'' - AVEVO PENSATO A UN PAPA PER UNA SERIE TV MA POI SONO ARRIVATI MORETTI E SORRENTINO - HO UNA VAGA SIMPATIA PER M5S
Malcom Pagani per il “Fatto Quotidiano”
Se la realtà fosse un film con Orson Welles, Marco Bellocchio potrebbe recuperare gli incontri mancati: “Claudio Caligari l’ho conosciuto solo attraverso i racconti di Valerio Mastandrea e un po’ mi dispiace. Pare che il suo funerale sia stato celebrato davvero, ma chi può escludere che non fosse fasullo come ne Il Terzo Uomo e che Caligari non stia osservando l’approvazione postuma toccata al suo ultimo lavoro con il sorriso di chi ha orchestrato la beffa conclusiva?”.
A quasi 76 anni, il regista che ha trascorso gli ultimi 50 a elaborare trame immagina ancora finali alternativi e inattesi colpi di scena: “Il piano è semplice: Il corpo è importante, ma non fondamentale. Quindi fino a quando la testa sarà a posto, andrò avanti. Poi mi farò da parte perché non voglio somigliare ai tanti che continuano, magari per comprensibili ragioni alimentari, a girare opere di singolare bruttezza. La pensione, mille euro, non è un granché e mette i brividi. Toccherà affidarsi alla salute”.
Molti sorrisi, molte manate tra i capelli, una certa generosità nel raccontarsi, una certa irrequietezza. Tre sigarette al giorno: “Dovrei mollare anche quelle”, pause che spezzano il dialogo a metà: “Scendiamo al bar per un caffè?”, tardive raccomandazioni ironiche sull’uscio: “Non mi faccia apparire maligno, sono stato e ho detto cose molto buone, ma si sa, i giornalisti amano la cattiveria”, libri di Carrère e di Casanova mimetizzati tra miniature di Mao, manifesti dell’unione sportiva bobbiese, poster de I pugni in tasca (restaurato dalla Cineteca di Bologna, torna nei cinema in 60 copie il 19 ottobre) targhe e premi.
A Venezia, Sangue del mio sangue non ha ricevuto leoni, ma ha ruggito. Anthony Scott, New York Times: “Strano e meraviglioso, dolente e poetico”. Deborah Young, Hollywood Reporter: “Girato magistralmente, un tesoro”. Jay Weissberg, Variety: “Sorprendentemente originale”.
La critica l’ha promossa. Le fa ancora effetto?
Lei mi dice che Robert Mitchum sosteneva che non esistessero attori, ma soltanto attrici. Non è falso. Ego, vanagloria, narcisismo. Peccati non estranei al cinema.
Peccano anche i registi?
In passato sono inciampato nella trappola del narcisismo. Forse non in maniera compulsiva, ma di certo allo specchio mi sono guardato anch’io. Ora accade più raramente, l’età mi permette di osservare le cose con un consolante senso di relatività. Poi diciamoci un’altra cosa.
Diciamocela.
Negare il narcisismo dei registi sarebbe patetico, ma ci si rimira allo stremo anche in altre categorie.
Nell’ultimo anno più che guardarsi allo specchio, lei ha lavorato.
Ho girato due film. Sangue del mio sangue e Fai bei sogni, tratto dal libro di Massimo Gramellini. Non l’avevo letto. Beppe Caschetto, una persona leale con la quale ho da anni un ottimo rapporto, mi ha proposto di occuparmene quando di Sangue del mio sangue, un progetto a cui tenevo molto, avevo già filmato un frammento: “L’importante è la storia, fammici ragionare, prima però devo finire l’altro film”. Il testo mi ha colpito. Siamo partiti. Abbiamo girato a Gennaio, sarà pronto in primavera.
Cosa sta diventando?
Ancora non lo so. Nella stanza accanto a quella in cui siamo, Francesca Calvelli inizia a montarlo proprio oggi ed è al montaggio che questo film in cui vediamo Massimo in tre diversi momenti e in tre differenti età della vita, va soprattutto costruito.
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C’è il bambino che perde la mamma, il Massimo preadolescente e quello adulto interpretato da Mastandrea. Valerio ha lo sguardo malinconico di chi ha subìto una ferita molto profonda e sa come nasconderla.
Il resto del cast?
Bèrènice Bejo che con Massimo nel libro ha un rapporto profondo e che molto testardamente ha voluto recitare in italiano, Emmanuel Devos e tanti altri attori come Fabrizio Gifuni che appaiono in una sola sequenza.
Autogrill, centri commerciali, librerie. Il libro ha venduto più di un milione di copie.
Non sapevo fossero un milione, ma so che Fai bei sogni ha realizzato numeri spaventosi. Se il meccanismo si ripetesse in sala sarei contento. Ma sono soddisfatto anche di quanto ha incassato finora Sangue del mio Sangue, un film che fin dalle premesse doveva costare poco.
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Meno di Fai bei sogni?
Ho una certa storia, un certo carattere. Piccolo o grande che sia, so controllare un budget.
La disturba parlare di soldi?
Per cinema, arte e letteratura il fantasma del pubblico è una persecuzione.
Dover incassare per forza è una condanna?
Tu difendi la tua libertà assoluta, combatti il tuo moralismo, i residui ideologici e le suggestioni e poi sempre lì vai a finire.
Lì dove?
A telefonare al produttore a tarda notte per sapere quanto ha incassato il film. A farti condizionare l’umore, a passare in un istante dall’euforia alla depressione. Conosco per esperienza diretta entrambi gli stati d’animo.
In questi giorni qual è lo stato d’animo di Marco Bellocchio?
Sono felice che Sangue del mio sangue sia piaciuto, concentrato sul montaggio del mio nuovo film e nelle ore libere, impegnato a immaginare altro. E cosa immaginiamo noi che facciamo cinema? Altre storie.
E subito dopo? A quanto costeranno queste storie, fin da quando le scriviamo. Ecco a cosa pensiamo. A dove trovare i soldi per far vedere al pubblico le nostre visioni. A tenere bassi i costi dell’ingranaggio. Non voglio togliere l’aura romantica al mestiere, racconto solo la verità.
E la verità è migliore o peggiore di 40 anni fa?
Non più semplice. Ma più democratica e più leggera. Oggi, se vuoi, un film lo giri anche con un telefonino. Dall’altra parte è cambiato tutto. Il pubblico invecchia, non si rinnova e muore. Mi ricordo i film di Rohmer o quelli di Wenders. Il raggio verde, Paris Texas, Il cielo sopra Berlino. Erano successi di pubblico. Se uscissero oggi avrebbero incassi modesti.
Girerebbe una serie?
MARCO BELLOCCHIO CON LOCCHIO NERO
Me l’hanno chiesto, non sono pregiudizialmente contrario, ma bisognerebbe trovare una storia. Avevo pensato a un giovane Papa, ma poi sono arrivati Moretti e Sorrentino e amen. Ho visto True Detective, Les Revenants e qualcos’altro restando colpito dalla combinazione tra regole televisive e una qualità che un tempo riguardava solo il grande cinema. Qualità eccellente.
E crescente frenesia dello spettatore, disabituato ai ritmi del ‘vecchio cinema.
È indubbio. Qui non si tratta di difendere il ritmo di Resnais, Dreyer o Antonioni, ma di proteggere il loro diritto a essere visti. Nella contaminazione crescente, mi pare che al cinema che non si piega alla trionfante dinamica del racconto tv sia concesso uno spazio sempre minore.
Quando sa di aver fatto un bel film?
Quando mi nascondo in sala e ascolto le reazioni del pubblico. Alla centesima versione del proprio film, il regista non capisce più nulla e non distingue più il bello dal brutto. Alla prima proiezione privata de I pugni in tasca non provai nessuna emozione particolare. Mi dissi: “E dunque? Tutto qui?”.
PIETRO VALSECCHI MARCO BELLOCCHIO
Il film segnò un’epoca.
Intuii che avevo provocato turbamento solo con il pubblico, a Locarno. La gente rideva, magari istericamente o quando non avrebbe dovuto, ma rideva. Mi chiedevo: “Che film ho fatto?”. Non lo sapevo. Ma avevo smosso qualcosa.
Al posto di Lou Castel- è noto- avrebbe dovuto esserci Gianni Morandi.
Ma non sarebbe stato lo stesso film. Non so se migliore o peggiore, ma diverso. È vero che quando iniziai, per dare al film la certezza di vedere la luce, i produttori mi proponevano di inserire nel cast un attore noto.
Ed è vero che la tradizione continua ancora oggi. Ma la certezza del successo di un’opera non te la dà nessuno. Tantomeno un volto conosciuto. Le strade per cui un film riesce a farsi vedere confinano con il mistero.
In sangue del mio sangue recitano entrambi i suoi figli.
Conosco l’osservazione. Sono abituato. C’è chi mi definisce generoso e chi rapace.
E lei com’è?
Un regista. Uno destinato a farsi giudicare, descrivere, raccontare dagli altri.
Rimangono i suoi film.
Anche lì, poche speranze. Ai tempi del Centro Sperimentale incontravo sempre un vecchio generico. Mi fermava. Mi indottrinava: “Sai chi gliele ha date le idee a Fellini? Io, tutte io”.
In Sangue del mio sangue, suo figlio Pier Giorgio interpreta due ruoli.
Quando arriva il momento delle riprese vai oltre tuo figlio. Pier Giorgio ha percorso una strada particolare. Ha fatto il cameraman, il produttore, l’attore. C’è stima, affetto, onestà nel rapporto. Se fosse scarso non l’avrei ingaggiato.
Ancora oggi, a 35 anni da Vacanze in Val Trebbia, Pier Giorgio lavora con lei.
In quel film, a 6 anni, mi dava dello stronzo. Il rapporto è migliorato.
Anche l’attore.
Che è doppio, come noi tutti. Ho pensato che In Sangue del mio sangue la sua doppiezza fosse adatta a interpretare un cavaliere tormentato e un moderno cialtrone. Pier Giorgio conosce la macchina cinema come nessuno perché, anche per ragioni economiche, ha sempre lavorato in vita sua. Non credo se ne debba vergognare. Gliel’ho sempre detto: “Sei entrato, magari con il marchio menzognero del privilegiato e ti assumi vantaggi e svantaggi della situazione”.
Gli svantaggi?
Ha fatto sempre un certo tipo di cinema. Non è il primo volto a cui pensano i produttori delle nostre commedie. E non so neanche se sia un bene o sia un male.
Non le piacciono le commedie odierne?
Il cinema italiano ha ripreso una sua disordinata effervescenza. È meno depresso, c’è vivacità e poi, proprio come ieri, osserva un blocco che punta a fare i quattrini con un tipo di commedia che a me non piace e- tranne rare eccezioni- trovo banale e priva di qualunque interesse.
Ne Il regista di matrimoni, Gianni Cavina giurava che l’Italia fosse in mano ai morti. La politica è un bagno turco affollato di membra stanche come in La bella addormentata?
Mi chiedono: “Perché sei di sinistra?” Rispondo: “Forse perché ascoltando Salvini non si può essere di destra”.
Lei si sente ancora di sinistra?
Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. L’ha scritto Montale, me ne approprio. Mi sento radicale. Laico. Per carattere, rabbia e pacifico anarchismo, ho una vaga simpatia per il M5S. In generale, qualsiasi realtà che prefiguri l’assalto al potere delude, fallisce o si piega inevitabilmente al compromesso. Cinquant’anni fa si respirava la retorica bellicista: “Prenderemo il Palazzo d’Inverno”. Per fortuna non è avvenuto. Sarebbe stato terribile.
sangue del mio sangue di bellocchio
In gioventù, disse, le capitò di essere invidioso.
Preparavo con difficoltà Nel nome del padre, Bertolucci usciva con Ultimo Tango e sì, un po’ invidioso sono stato. È passato del tempo, non invidio più nessuno e considero ragionare sul successo altrui una sciocchezza. I grandi puoi anche invidiarli, ma ti stimolano. Se avessi visto ai maestri con timore, avrei dovuto scomparire o buttarmi nel Po.
Ha fatto pace con Tarantino? Nel 2007, dopo l’esperienza da giurato al Festival di Cannes, lei gli diede del cafone per un suo duro giudizio sulla qualità del cinema italiano.
Tarantino era in concorso con i fratelli Coen che poi vinsero l’Oscar e proprio come loro non venne preso in considerazione. Disse qualcosa di spiacevole, fu cafone e lo rimarcai. Tutto qui. Opinioni. Lampi lontani di molti anni fa. Non ci conosciamo, lui vive nell’Olimpo, ma non esiste alcun rancore. Io sono uno spettatore semplice. Il suo cinema non è il mio genere, ma è ammirevole.
Quello di Nanni Moretti? Una volta disse: “Il suo è un cinema fatto di parole, il mio di immagini”.
Lo stimo molto e mi pare che negli ultimi film la sua ricerca non poggi più prevalentemente sulla parola. Sta venendo dalla mia parte? Non so. So che la distanza si è accorciata e che il suo cinema di oggi mi interessa di più di quello di ieri. Prima di Venezia, Nanni che era stato a Bobbio a presentare Mia madre in un’atmosfera che definirei serena, mi ha mandato un sms di auguri.
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Cosa c’era scritto?
Oltre all’in bocca al lupo, mi spiegava perché aveva deciso di presenziare al festival-laboratorio che organizzo a Bobbio solo quest’anno dopo essere stato invitato più volte senza fortuna: “Ero riottoso perché mi avevi definito un miserabile quando ero in giuria a Cannes”. Eravamo nel ‘97, avevo portato Il principe di Homburg.
Moretti illustrò le ragioni della giuria e disse che il suo film e quello di Rosi: “Non erano stati neanche presi in considerazione”. Lei si arrabbiò: “Per la mancanza di stile veramente miserabile”.
Non me lo ricordavo, ho sbagliato e mi sono scusato.
Ha litigato spesso?
Ho discusso. Anche in modo divertente. Ai tempi de La Condanna, Orso d’argento a Berlino nel ’91, Pietro Valsecchi, il produttore, mi chiese in prestito il premio per un servizio fotografico: “Due giorni e te lo ridò”.
E lo ridiede?
Dopo una settimana lo richiamai: “Pietro, scusami, avete smesso di fotografare?”. Giocò con i paradossi, ne fece una questione di principio, citò l’esempio dell’Oscar e della statuetta consegnata al produttore e poi calò le carte: “Me lo tengo, mi spetta di diritto, mi hai fatto spendere centinaia di milioni.
non essere cattivo caligari e mastandrea
Lo considero un risarcimento”. Andammo in causa. Poi intervenne l’avvocatessa Cau, uno spirito sublime: “Con tutti i problemi che ci sono nel cinema, vi accapigliate per questa cazzata? Fate pace”. Ubbidimmo. Il Festival di Berlino fece preparare una copia esatta dell’Orso. Io tenni la copia, Valsecchi l’originale. L’ho vista con i miei occhi, è molto ossidata. Di tanto in tanto, Pietro dovrebbe lucidarla.
Rinunciò al premio?
Non dovevo esporlo. Era una copia esatta. Non mi importava. Valsecchi propose di tirare a sorte. Non accadde più. Non abbiamo avuto più il tempo.