I PUBBLICISTI ORA POSSONO PUBBLICARE: ESTESO ANCHE A LORO IL SEGRETO PROFESSIONALE - MA LA LEGGE SULLA DIFFAMAZIONE FA ACQUA DA TUTTE LE PARTI

Sara Nicoli per Il Fatto Quotidiano

Una toppa peggiore del buco. Montecitorio vara la nuova legge che riforma il reato di diffamazione a mezzo stampa (ora passa al Senato, dove si prevedono tempi lunghi) e cancella il carcere per i giornalisti e i direttori delle testate. Peccato, però, che a fronte di questa concessione alla stampa, le forze politiche abbiano aumentato in modo robusto le multe introducendo anche l'obbligo della rettifica senza commento a favore dell'offeso.

In più, la maggioranza ha pensato bene di eliminare qualsiasi ammenda verso chi intenta querela nei confronti dei giornalisti a scopo squisitamente intimidatorio (resta solo una multa di 10 mila euro nei casi più eclatanti), ovvero le cosiddette "querele temerarie". Niente carcere, insomma, ma un guinzaglio alla stampa assai più corto attraverso altri modi, tutti economici, per stringere il bavaglio ai giornalisti. La legge è passata con 308 voti a favore, 117 contrari (Sel e M5S) e 8 astenuti.

Nel testo però ci sono pasticci vistosi. Nella diffamazione a mezzo stampa, per esempio, è stata tolta l'aggravante del fatto determinato e questo, fatti i debiti conti, rende la diffamazione fatta da un giornalista meno onerosa di quella che può colpire un diffamatore da salotto, la cui multa è stata elevata fino a 10 mila euro nel caso in cui il reato venga commesso tra privati. Contraddizioni che, probabilmente, verranno riviste nel passaggio a Palazzo Madama ma che suscitano perplessità sull'intero impianto della legge. Ma andiamo alle multe. Per la diffamazione semplice, si diceva, si va dai 5 ai 10 mila euro.

Se, invece, si è consapevolmente attribuito a qualcuno un fatto falso, allora la multa sale da 20 mila a 60 mila euro (sinora il tetto massimo era di 50 mila euro), con tanto di obbligo di riportare per esteso della sentenza, fatto a cui nessun giornale cartaceo potrà ottemperare visto che spesso le decisioni superano le cento pagine. Probabilmente al Senato ci si accorderà per la sola pubblicazione del dispositivo della sentenza, ma resta pesante l'entità della tetto massimo per le multe, soprattutto per i free lance non tutelati dall'ombrello di un editore.

In caso di recidiva, è prevista anche l'interdizione dalla professione da sei mesi ad un anno, ma la pubblicazione della rettifica è giudicata come causa di non punibilità. Le rettifiche, tuttavia, dovranno essere pubblicate senza commento e risposta, menzionando espressamente il titolo, la data e l'autore dell'articolo diffamatorio.

In caso di violazione dell'obbligo scatterà un'ulteriore sanzione amministrativa da 8 mila a 16 mila euro. Insomma, la libertà di movimento del giornalista, anche senza carcere, resta sempre molto ridotta. Tanto che stavolta il delitto di diffamazione è stato esteso anche ai siti Internet, con unica esclusione dei blog, che restano nella responsabilità dell'autore del post. Ma c'è di più.

In caso di diffamazione, il danno sarà quantificato sulla base della diffusione della testata, della gravità dell'offesa e dell'effetto riparatorio della rettifica. L'azione civile dovrà essere esercitata entro due anni dalla pubblicazione. Una sorta di "fine pena mai" per il giornalista che potrà trovarsi a rispondere di una querela, a livello civile, anche molto tempo dopo la pubblicazione dell'articolo.

Cambia, invece, la musica per i direttori delle testate, prima sempre responsabili di omesso controllo. Non risponderanno più a titolo di colpa e potranno delegare le funzioni di vigilanza (in forma scritta) a un altro giornalista che dovrà prendersi anche la responsabilità dell'omissione di controllo di un testo al posto del direttore. In ultimo, il segreto professionale, che viene esteso anche ai pubblicisti anche se resta l'obbligo di dichiarare la fonte nel caso in cui questa sia fondamentale per accertare la prova di un reato.

 

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