LA MIA BANDA SCRIVE IL ROCK – NEL PRIMO ROMANZO DI FOSSATI UN MANIPOLO DI CIALTRONI E UN CHITARRISTA CHE SI ILLUDE DI RESTARE GIOVANE: CANZONETTE E GUASCONERIE COME COSMETICO ANT-AGE

Ivano Fossati per "la Lettura - Corriere della Sera"

Tretrecinque non è autobiografico ma una certa mia convinzione la contiene: non si deve avere paura della distanza. Degli uomini a volte sì, delle lontananze no. I silenzi, a lavorarci sopra, si colmano. Gli affetti si allacciano, i rimpianti si trasformano in confessioni e le confessioni in perdono. I chilometri, le miglia, le autostrade, i vuoti d'aria non contano. E nemmeno gli addii.

Per allontanarsi ci vuole coraggio, ma meno di quanto si crede. Un uomo di settantadue anni teme di vedere evaporare i ricordi della propria vita, sono cose che succedono, decide così di scriverla - con fatica perché non è uno che ha studiato - e inviarla alle due sole persone di cui ancora gli importa. Nessuno tiene l'archivio perfetto delle proprie azioni, così quando si è pronti per la pattumiera ci si può anche convincere di aver vissuto una vita da due soldi. E anche di avere commesso più errori di quanti ne conti la memoria.

Questo è il genere di lontananza contro cui mi sentirei di lottare, la perdita di me stesso. Il resto è curiosità e conoscenza. Le frontiere in Europa si sono allentate, i ragazzi non le considerano nemmeno più. Sono quelli come me che arrivando in autostrada a Ventimiglia hanno ancora l'istinto di rallentare già un chilometro prima. Non c'è più nessuno a scrutarti mentre passi davanti a quei vecchi avamposti da deserto dei tartari.

Mi piace poter dire a quelli più giovani di me che di sicuro ci siamo tutti guardati le scarpe o l'ombelico per troppo tempo e le frontiere le abbiamo considerate dall'interno, invalicabili, o peggio messe lì per segnare sempre e comunque il passaggio del nostro ritorno. Una volta era tutto più difficile: la lingua, le monete, le abitudini.

Viaggiare costava moltissimo. Eppure quelli come Vittorio, il protagonista del libro, esistevano veramente, erano uomini con meno di trent'anni. Camerieri e suonatori che si muovevano in giro per l'Europa quando era una terra buia e forse anche più ostile di oggi per quelli che andavano a cercarsi lavoro. Erano i miei fratelli più grandi, con una decina d'anni più di me, a volte meno. Li ho visti, e li ho sentiti raccontare.

Si imbarcavano sulle navi come orchestrali o prendevano la via del Belgio e della Germania: c'era da far ballare i nostri operai e minatori, i più fortunati con le fidanzate trovate sul posto il sabato e la domenica. Si poteva guadagnare più che andando in fabbrica. A casa ci restavano le famiglie, le madri, le mogli quando c'erano. Se c'era da suonare si suonava, altrimenti si serviva ai tavoli o si facevano i lavori pesanti, tutto pur di non ritornare indietro sconfitti e senza soldi.

Così si consumavano i distacchi, che qualche volta diventavano addii, ma cosa importava ormai, la porta si era spalancata e l'aria entrava fredda e nuova. Dalla Liguria un secolo e mezzo fa partivano gli orsanti.

Orso e organetto, si esibivano nelle fiere, su fino all'Austria e alle coste dell'Inghilterra. Per pochi soldi restavano fuori casa sei mesi. La stagione dopo ripartivano e i figli li vedevano crescere a tratti, a intermittenza, fin quando non avevano l'età da portarseli via con loro. Di che cosa dovremmo avere paura noi adesso, di quello che resta delle frontiere? Delle diversità?

Vittorio Vicenti non ha paura di niente e se proprio avverte qualche timore dentro ogni tanto è per il passato. Perché in fondo il presente è un attimo e il futuro è immaginario, trasparente, soprattutto puro come una cosa che non c'è. È così che la pensa ma di certo in termini più semplici. È un suonatore e la vita nelle orchestrine viaggianti di una volta era fatta di rapporti camerateschi, credo che coi pensieri si volasse basso.

Ma forse si aveva la sensazione di salvarsi la vita. Dal grigiore, dalle abitudini. Si poteva illudersi di essere rimasti giovani anche quando il tempo era passato. Oggi potremmo dire: leggerezza invece di chirurgia plastica. Cialtronerie, canzonette e guasconerie come cosmetico antiage.

Gli anni Cinquanta e poi i Sessanta già di per sé devono essere stati per questa gente una sorta di immenso territorio libero: poche regole, poche convenzioni; il coraggio da solo bastava e poi quasi sempre ci si mettevano gli incontri, le storie d'amore più o meno vere e profonde, più o meno lecite. L'avventura, o qualcosa che le somigliava molto.

La musica era cambiata in tutti i sensi, all'inizio, quando la guerra era finita da poco, non si doveva avere più paura di niente. Né degli uomini né della miseria. Siamo ancora alla paura, e al coraggio, quello famoso che se uno non ce l'ha non se lo può dare. Invece sì che può, quasi a qualunque età, ma meglio prima che dopo. Meglio trovarsi un lavoro dove c'è, anche se costa uno strappo, perché alle distanze ci si abitua, alla disillusione no.
E qui siamo a oggi.

Per questo ho immaginato un manipolo di cialtroni, incapaci di governare la propria vita e i propri sentimenti, ma fermamente gelosi della loro vaga idea di libertà. Anche quella di invecchiare senza crescere e senza farsi mai trovare dove gli altri vorrebbero. Anche quando più avanti nel romanzo il tempo diventa quello di internet e dei telefoni cellulari loro conservano le antiche convinzioni e provano a sfruttare la pianta della modernità senza stendersi mai sotto la sua ombra. «Niente canzoni per fighetti, niente novità del cazzo (...) in fondo le cose si erano sempre fatte così, non me ne fregava niente se tutto era cambiato».

Ecco, il protagonista del mio libro non è del tutto un buon modello per i ragazzi, ma l'aria che tira là dentro forse li può interessare. C'è vento che non si ferma e non c'è polvere che si posi su nulla, ci sono stato attento. I personaggi li ho fatti correre, uno in special modo, e il tempo di riflettere non l'ho voluto dare a nessuno. Come un burattinaio, quasi come se fossi uno scrittore per davvero, e non lo sono.

Ma tant'è questi poveri cialtroni che amano tutto e non credono a niente a modo mio dovevo pur farli muovere, così ho preferito che andassero a correre come bambini in uno spazio infinito, fatto di lontananza, di qualche aspettativa e di parole non dette. Per pigrizia, per incapacità, per dolore.

Correre e parlare non si può, non ci riesce nessuno. È già tanto riuscire a respirare, se hai davanti una strada che non finisce e alle spalle un passato che non ti ricordi. E se non è proprio la tua fortuna puoi sempre pensare che tutta quella distanza, dove vedi correre insieme a te le linee del telefono e le scie degli aerei, è la tua vita.

 

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