CENTO DI QUESTI OLMI - IL REGISTA RICOVERATO A MILANO ALLA VIGILIA DELL’USCITA DEL SUO FILM SULLA GRANDE GUERRA - IN UN’INTERVISTA, LA DEFINIZIONE PERFETTA DI RENZI: BUGIE, BUGIE, BUGIE
1. ERMANNO OLMI RICOVERATO ALLA VIGILIA DEL SUO FILM SULLA GRANDE GUERRA
Da “La Stampa”
Il regista Ermanno Olmi, 83 anni, è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano per accertamenti per una sospetta polmonite. Restano confermate le anteprime del suo ultimo film, Torneranno i prati, dedicato alla Grande Guerra, in programma il 4 novembre, anniversario dell’Armistizio, in vista dell’uscita in sala il 6 con 01. Martedì è prevista anche una proiezione alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Torneranno i prati sarà anche proiettato in contemporanea in quasi 100 Paesi.
L’evento speciale prevede una proiezione organizzata da Ambasciate, Consolati e Istituti di Cultura italiani all’Estero e interesserà, con la collaborazione del Ministero della Difesa, i contingenti di pace italiani in Afghanistan, Kosovo e Libano. Un evento senza precedenti che per la prima volta coinvolgerà tutto il mondo, come la Grande Guerra di cui quest’anno ricorre il Centenario. Un richiamo alla pace - di cui il regista italiano si fa portavoce - che raggiungerà Parigi, Londra, Pechino, Tokyo, Washington, New York, Mosca.
«Vorrei che questo film fosse più che bello, soprattutto utile contro la guerra. Un film che ci faccia chiedere - aveva detto a marzo il regista sul set dell’altopiano dei Sette Comuni dove sono state ricostruite due trincee - perchè questa guerra è accaduta. Le versioni ufficiali su queste cose non sono mai davvero credibili. Così, a cento anni di distanza, il miglior modo di festeggiarlo è capire quello che è successo come capire perché oggi si parli ancora di conflitti».
2. INTERVISTA A ERMANNO OLMI
Pino Corrias per “il Venerdì - la Repubblica”
torneranno i prati ermanno olmi
Dopo tanta retorica da centenario, ammainate tutte bandiere, per favore, arriva Ermanno Olmi, il narratore di molti mondi, tra cui il nostro, a raccontarci cosa fu la Grande Guerra, attraverso quella piccolissima, e dolorosa, di due soldati senza nome, un ufficiale e un fante, incastrati dalla Storia e dalla neve in una trincea a 1800 metri di altezza, sopra Asiago, nella notte di plenilunio dell’autunno 1917. Sognando una buona vita a un millimetro dalla morte. E di sicuro una minestra calda.
Olmi esce dal buio della sala di montaggio con gli occhi lucidi e un sorriso. Gli piace lavorare, ma anche lo sfinisce. Ha 83 anni. Si siede. Beve un caffè. Porta notizie dal suo nuovo film, Torneranno i prati, come uscisse dagli scavi di una memoria che risale a quando era bambino, nella piccola Italia degli Anni Trenta, casetta con giardino alla Bovisa, tra le ciminiere di Milano, quando suo padre ferroviere gli faceva certi racconti pieni di freddo e di spavento, narrandogli dei prati lungo il fronte orientale, sugli altopiani, incisi dal sangue e dalle trincee della guerra.
Oggi, declinando nel titolo quei prati al futuro, Olmi ha scelto di tramandarci un po’ di speranza: “Mi piacerebbe aver fatto un film bello, ma soprattutto utile. Ne abbiamo bisogno”. Dice: “C’è un cinema per sognare e un cinema per capire. A me interessa il secondo”.
torneranno i prati ermanno olmi
La storia del film coincide con quella dei protagonisti, un’ora e mezza: “Un tempo dell’anima, non quello degli orologi”, in cui i due giovani uomini si parlano di cose da nulla, “ma in quel nulla c’è il mondo”. Scende la neve, morde la stanchezza, sale la paura. Poi la neve smette e ci sono le stelle: luci di incommensurabile lontananza, eppure vicinissime. “Proprio come le trincee dell’altro mondo, quello dei nemici, che talvolta correvano a non più di dieci metri di distanza”, e che possono contenere la fucilata del cecchino che ti uccide, oppure una pausa di vita.
Perché da un avamposto all’altro, magari senza vedersi, ci si parlava “con la lingua dei poveri, che è lingua universale” per concordare una tregua, raccogliere i feriti agonizzanti, oppure fare un po’ di legna. Un bombardamento scompagina il paesaggio e la storia. Un colpo di scena la conclude, perché “ci sarà una sorpresa nel volto del nemico”. Per scoprire cosa? “Che in tutte le guerre il vero nemico siamo noi stessi, la nostra ostinata stupidità”.
ermanno olmi sul set di torneranno i prati
Gli storici – che di quella guerra hanno narrato le infinite ragioni, gli infinti torti, le sofisticate spiegazioni - non sarebbero d’accordo. Ma a Olmi non interessano le grandi architettura della storia, lui inquadra e racconta le piccole viti che le tengono insieme, magari fino al punto di rottura. “Ogni guerra è un crimine – dice -. E io predico la disobbedienza come virtù civile”.
Diciassette milioni di morti, ci furono allora, 600 mila solo in Italia. “Per lo più contadini e analfabeti, chiamati a difendere la patria che per loro era la terra, era l’orto, era la vita. Senza neanche immaginare che invece morivano per la ricchezza delle casate reali, degli imperi. Per il ferro e il carbone delle Nazioni”.
E’ dall’inizio dei suo viaggio che Olmi declina vite minime di giovani operai, giovani fidanzati, trascurabili eroi della fatica quotidiana come i contadini del suo capolavoro, L’albero degli zoccoli, Palma d’oro a Cannes, anno 1978, per raccontarci la grandezza del mondo, il suo mistero. Sempre indagato con la sua mistica di “aspirante cristiano”, e il suo stupore: “Ho vissuto e lavorato sempre all’insegna della sorpresa”. Dice: “Borges cercava il nome segreto di Dio nei libri. Io lo cerco negli uomini, nelle cose fabbricate e in quelle create, come un albero o il bosco”.
IL VILLAGGIO DI CARTONE ERMANNO OLMI
Accomodato sul divano, cerca le parole di un rendiconto: “So che da adesso in poi il mio futuro è anche il mio congedo”. Per questo ha voglia di parlare del suo lavoro, il cinema, “che mi ha reso un artigiano felice”, dell’Italia “umiliata dalla menzogna perpetua”, di quella illusione che ci scava: “Crediamo che la felicità sia nel consumare cose. Ma il consumo è il simulacro del piacere e quel che ci resta è solitudine”.
Cominciamo dal cinema.
“Ho girato più di cento opere, tra documentari e film, ogni volta mi sembra di ricominciare da zero, di scoprire tutto dall’inizio. E’ una sensazione bellissima che mi consente la massima concentrazione”.
Anche stavolta ha lavorato con molti appunti e poca sceneggiatura?
“Ho letto molti diari di soldati, preferendoli ai grandi scrittori. Non volevo troppe mediazioni letterarie, volevo immediatezza, stupore, dramma e la poesia dell’essere vivi. Poi ho scritto la storia dei miei personaggi in forma di racconto, sempre in prima persona singolare. I dialoghi li provavo sul set. Le inquadrature anche. Ai tempi dell’Albero degli zoccoli, mi scrivevo le battute su un foglietto che tenevo nel cappello. Sul set provavo le battute con i contadini, ascoltavo il suono del dialetto. Quando le battute stonavano, le cambiavo. I macchinisti ogni tanto mi chiedevano notizie: che dice il foglietto, andiamo in pausa?”.
E oggi?
“Oggi lo stesso. Ma con tutti gli impacci dei miei anni. Per fortuna sul set, in mezzo alla neve, c’era il mio amico regista Maurizio Zaccaro a tenere le fila. Io me ne stavo un po’ più a valle, davanti a un monitor, dentro una baracca a morire di freddo”.
Quanto le pesano gli anni?
“Rallentano tutto quello che vorrei fare. Mi nascondono le parole che ho in testa. Però mi tengono anche compagnia”.
E vero che una volta finiti non riguarda più i suoi film?
“E’ vero, non li riguardo mai, straccio gli appunti, ripulisco la scrivania. Mi metto in cammino verso altre scoperte, mentre loro stanno fermi e quello che avevano da raccontarmi lo so già”.
Cos’è per lei il cinema?
“E’ mostrare qualcosa della realtà che gli altri non vedono. E’ Rossellini che gira Paisà tra la polvere del dopoguerra. E’ Fellini che sogna di fare Otto e mezzo mentre lo fa. E’ Tonino Guerra, già molto malato, che mi dice ho una bellissima storia da raccontarti sul nostro amico Tarkovskij. E mentre racconta, fuori dalla finestra della sua casa di Pennabilli, c’è la stessa neve di Amarcord”.
Le manca quel mondo?
“E’ stato una parte della mia giovinezza. Ma sono un uomo di sentimenti, non un sentimentale, e quindi non mi manca, perché c’è sempre, sta dentro di me”.
Il cinema di oggi le piace?
“Quello degli effetti speciali, delle commedie insulse, no. Ma ho visto cose bellissime come Le meraviglie di Alice Rohrwacher, certi film di Edoardo Winspeare e poi i lungometraggi di Michelangelo Frammartino, che per me è il più profondo. Sono sicuro che ruberò qualcosa a ognuno di loro, una luce, una inquadratura. Certi film sono così roventi che ti lasciano il segno”.
E l’Italia di oggi che segno le lascia?
“Inquietudine, rabbia. Perché tutto si fonda sulla menzogna, su questo inganno che il consumo, l’economia, il pil, riempirà il vuoto della vita. Berlusconi, da questo punto di vista, è stato il re dei mentitori. Un avvelenatore di pozzi. Pasolini, parlando di un regista disse: è così bugiardo che quando sarà all’inferno, convincerà gli altri di essere in paradiso”.
E Renzi?
“Anche lui è prigioniero di questa dannazione della comunicazione. Questo perpetuo fare in fretta per poterlo dire in fretta e poi magari, lentamente, non fare niente. Racconta anche lui bugie. Tutti fanno finta di credergli per convenienza e si va avanti ancora un po’”.
Però almeno è giovane, dunque innocente del passato, o almeno così si dice.
“E’ giovane di sicuro. Speriamo solo che migliori, perché è anche l’unico”.
La accusano di essere antimoderno, inattuale, passatista.
“Se la modernità è distruggere il pianeta che ci ospita, avvelenare quello che mangiamo, preferisco non essere moderno. Ma non lo credo. La modernità è pensare con occhi nuovi, non masticare idee vecchie. Il mio amico Luciano Bianciardi, che nei suoi ultimi anni milanesi veniva a trovarmi ogni giorno, con la sua camminata lenta, da provinciale, era tra i pochi che non credevano ai miracoli del Miracolo economico. Tra tanti cantori, la sua verità stonava”.
Però anche lei ha fatto spot pubblicitari, dicono i puristi.
“Ah, sì. Me lo rimprovera sempre il mio amico Goffredo Fofi. E’ vero, lo ammetto. Ne ho girati sei per sopravvivere in certi anni in cui i miei film non facevano una lira. Con due caroselli campavo un anno, una meraviglia. Poi ho smesso”.
In tanti anni di mestiere non ha mai abitato a Roma e ha lasciato Milano per l’altopiano di Asiago.
“Vivo in mezzo alla natura e al silenzio. Ho avuto una brutta malattia. Loredana, mia moglie, mi ha aiutato a sopravvivere. Ma lo ha fatto anche il bosco, che è il libro della vita”.
Di questo film cosa vorrebbe che restasse?
“La forza della vita sulla morte. La certezza che la guerra è un crimine. E visto che siamo nel centenario, il sospetto che la retorica delle bandiere sia fatta più per dimenticare che per ricordare”.