IL CINEMA DEI GIUSTI - “C’ERA UNA VOLTA A NEW YORK”, UN FILM “POVERO” E LACRIMEVOLE, MA CON DIETRO UNA GRANDE RICERCA E UN OTTIMO CAST
Marco Giusti per Dagospia
C'era una volta a New York di James Gray
Preparate i fazzoletti. Grande ritorno del mélo e delle storie lacrimevoli di brave ragazze traviate, papponi che sbagliano ma cercano il perdono, polacchi che pregano. Il tutto in quel di New York negli anni dell'immigrazione europea.
Altro che Matarazzo! In questo elegantissimo, ultracinefilo ma un po' inerte "The Immigrant", mal tradotto da noi con un leoniano "C'era una volta a New York", James Gray, uno dei registi più colti e sofisticati della nuova generazione americana, che abbiamo avuto presidente della giuria pochi mesi fa al Festival di Roma, ripropone in versione quasi da fiction il suo stile sofisticato e sofferto, sperimentato nel ben più memorabile "Two Lovers", anche questo scritto assieme a Ric Menello, spalmandolo nella New York dell'immigrazione polacca negli anni '20, Marion Cotillard, la Santa Maria Goretti preferita del cinema francese piange senza interruzione dall'inizio alla fine.
Presentato alla fine di un'edizione di Cannes particolarmente ricca e sconvolgente, il film di James Gray è sembrato più ovvio e meno riuscito di quanto fosse realmente. Non gli ha giovato l'abbraccio del potente Harvey Weinstein e nemmeno il far gruppo con una serie di film franco-americani, non proprio riuscitissimi, come "Blood Ties" di Guillaume Canet, pure cosceneggiato da Gray, o il più interessante "Jimmy P" di Arnaud Desplechin, che dimostrano il desiderio del cinema francese di allargarsi al mercato americano.
Anche "C'era una volta a New York" è una coproduzione franco-americana, oltre tutto piuttosto povera, malgrado la messa in scena elegante e intelligente di James Gray e il suo bel cast tentino di dissimulare la mancanza di mezzi. Ma la presenza di una star come Marion Cotillard, oltre a un fedelissimo del cinema di Gray come Joaquin Phoenix e all'interessante Jeremy Renner in un ruolo del tutto nuovo per lui, ci ha fatto vedere forse l'aspetto meno interessante del film, cioè il suo lato più mélo.
Anche perché dopo la Cotillard senza gambe di un anno fa in "Un sapore di ruggine e ossa" di Jacques Audiard, ritrovarla sempre a Cannes come sfortunata immigrata con gli occhi sempre pieni di lacrime non ci sembrava il massimo. Qui, la sua Ewa piange quando, giovane polacca indifesa, con genitori decapitati dai cosacchi ("Guai ai vinti"), arrivata a Ellis Island si deve dividere dall'amata sorella Magda, ammalata di tubercolosi e spedita per sei mesi nell'ospedale dell'isola.
Piange poi quando i suoi zii non si fanno trovare a attenderla e la polizia la dichiara incapace di provvedere alla propria vita in America e quindi bollata come persona da rispedire subito in patria dai cosacchi cattivi.
Piange quando, salvata da Bruno Weiss, sorta di capocomico-pappone, il solito bravissimo Joaquin Phoenix, si rende conto che dovrà lavorare per lui, sia a teatro come attrice sia vendendo il suo corpo, se vuole fare uscire la sorellina. Con l'entrata in scena di Orlando The Magician, un notevole Jeremy Renner appena visto come sindaco italiano in "American Hustle", Gray ricrea un po' il triangolo sentimentale della "Strada" (ancora Fellini...), cioè Fortunella-Zampanò-Il Matto.
Anche Orlando, come il Matto di Richard Basehart, ventata di superficiale allegria nel mondo cupo di Ewa, vuole portare via la sua Gelsomina dal bruto, addirittura in California. Ma Bruno, violento come Zampanò, ha un cuore, a modo suo, è pure innamorato della ragazza che sfrutta. Così Ewa, fra scopate mercenarie e lacrime di dolore, riscoprirà il valore del perdono e della fede cattolica neanche se fosse la protagonista di "Angelo bianco" di Matarazzo o della "Cieca di Sorrento".
Anche se il ritorno al mélo non poteva che far piacere ai vecchi critici, il film soffriva, almeno a Cannes, di una dose un po' eccessiva di effetti lacrimosi, che non si curavano della sottile ricerca storica di James Gray che sta dietro a questa storia un po' d'appendice. E dell'altissimo grado di cinefilia messa in campo da Gray e soprattutto dal suo sceneggiatore, Ric Menello, personaggio del tutto originale nel mondo del cinema americano.
Morto a 60 anni poco prima dell'uscita del film, Menello era un cinefilo mostruoso, "Conoscevo qualsiasi film" ha detto di lui il suo amico Wes Anderson, gran conoscitore del cinema americano degli anni '40 e '50, dei mélo di Douglas Sirk, ma anche del cinema europeo, da Dario Argento a Claude Chabrol, a quello più basso, visto che aveva scritto per "Film Comment" e anche per "European Trash Cinema", era stato assistente di Nicholas Ray, aveva diretto un celebre video dei Beastie Boys nel 1984, "You Gotta Fight For Your Right (To Party), oltre a scrivere per Gray il suo capolavoro, "Two Lovers".
E' dagli appunti e dagli studi di Menello, dalla sua passione per l'opera e per il mélo alla Douglas Sirk e alla Henry King che nasce anche questo film, che cerca di recuperare una vecchia idea di cinema oggi scomparsa. Sotto questa chiave, il film assume un tono diverso, e decisamente siamo stati un po' troppo frettolosi recensendolo da Cannes. Non solo merita una seconda visione critica. Merita particolare rispetto. In sala dal 9 gennaio.
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