
IL CINEMA DEI GIUSTI - NELLA COLLEZIONE DEI NUOVI MARTIRI-SANTI DELLA SCIENZA NON POTEVA MANCARE LA VITA DI STEPHEN HAWKING. MA SEMPRE NEI LIMITI DEL SANTINO EDIFICANTE RIMANIAMO. INSOMMA, C’È POCO CINEMA
Marco Giusti per Dagospia
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Basta con le commedie scemarelle, con le riletture dei supereroi e dei classici inglesi. Il nuovo cinema da Oscar prevede solo vite dei nuovi santi del secolo passato. Geni della matematica come Alan Turing, che ha regalato alle fresche generazioni di nerd il computer, o dell’astrofisica come Stephen Hawking, che ha cercato per tutta la vita di ragionare sul tempo e sulla creazione del tutto, un’unica equazione che ci spieghi la nascita del mondo.
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Ovvio che nella collezione dei nuovi martiri-santi della scienza non poteva mancare la vita di Stephen Hawking. Non a caso questo solido, ma non eccezionale biopic La teoria del tutto di James Marsh, già notevole documentarista che ci ha dato il capolavoro Project Nim e una precedentte fiction, Doppio gioco con Clive Owen, ci arriva fresco di ben due Golden Globe.
Quello al suo protagonista, il giovane talentuoso Eddie Redmayne , che avevamo già visto protagonista in Marilyn, che ricostruisce perfettamente un Stephen Hawking via via sempre più malato e immobilizzato sulla sedia a rotelle, capace di esprimere i propri sentimenti solo con gli occhi.
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E quello al compositore islandese Johann Johannson, sorta di Philip Glass addomesticato, ma di grande livello. Erano in corsa anche Felicity Jones, già vista in Tempest e in The Amazing Spider Man 2, nel ruolo di Jane, la coraggiosa moglie dell’astrofisico, che se lo sposa nonostante l’arrivo della malattia e gli darà ben tre figli, anche se poi si metterà con un baldo maestro di coro, interpretato da Charlie Cox.
Il film, ideato, scritto e prodotto da Anthony McCarthy, nasce dal romanzo della stessa Jane Hawking sul suo rapporto d’amore con il marito e parte proprio dai due ragazzi che studiano a Cambridge nel 1963. L’arrivo della malattia precosissima di Stephen Hawking, e l’idea di non avere che due anni di vita, spinge i due ragazzi a sposarsi rapidamente e a mettere su famiglia.
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Ma le previsioni erano totalmente sbagliate e, non solo Hawking supera i due anni di vita, al punto che è ancora vivo e vegeto, ma riesce a far figli, a viaggiare, a diventare un genio riconosciuto della fisica e, pur muto per una tracheotomia e potendo muovere solo le dita di una mano, riesce a superare ogni barriera di linguaggio grazie alla nascita dei computer e di una voce artificiale che può attivare proprio col movimento delle dita.
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Tutto questo, raccontato con maggior forza e forza visiva, lo avevamo già visto nel meraviglioso documentario di Errol Morris con il vero Hawking e la sua voce computerizzata protagonisti in A Brief History of Time nel 1991, che poteva vantare la produzione di Steven Spielberg e la musica, quella vera, di Philip Glass.
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Curiosamente, Marsh, che ha visto il suo stesso documentario, Project Nim, diventare una fiction nel primo reboot del Pianeta delle scimmie, si presta qui in parte alla stessa operazione. Visto che la vera vita di Hawking e le sue idee sul tempo e lo spazio, mischiate alla sua storia d’amore con la dolce Jane, si prestavano benissimo a diventare una buona fiction da premi internazionali.
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Non solo. Anche a inserirsi in questo nuovo filone dei santini della scienza del secolo scorso che possono piacere al pubblico dei nerd malati di computer di oggi. Se Benedict Cumberbacht era un favoloso Alan Turing, genio e sregolatezza, schizzato e gay, qui Eddie Redmayne è un genio malato in corsa col tempo e con la sua malattia che lo porterà alla carrozzella a vita.
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Se la vita di Turing verrà stroncata negli anni ’60 dalle assurde leggi inglesi sull’omosessualità e dal carattere impossibile del matematico, quella di Hawking partirà dagli anni ’60 negli stessi ambienti, il film è girato quasi tutto a Cambridge nei parchi del St. John, e alla fine si assisterà al trionfo, al martirio e alla santificazione del genio inglese, malgrado ogni possibile impedimento fisico.
Eddie Redmayne ben si presta a una ricostruzione perfetta di Hawking nel percorso della sua malattia degenerativa. E’ quasi una copia di quello del documentario di Errol Morris. Il limite del film, alla fine, è lo stesso di quello di The Imitation Game. Siamo cioè di fronte a ottima fiction inglese, benissimo diretta e interpretata, ma sempre nei limiti del santino edificante rimaniamo. Insomma, malgrado i giusti premi e le interessanti reazioni del pubblico, c’è poco cinema.
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Questo non toglie il gran piacere che si prova nel vedere dei biopic così ben fatti e costruiti. Da gustare il pomeriggio col tè e i pasticcini. Ricordo però che, nel ruolo della mamma di Jane, c’è una Emily Watson molto divertente. E i due protagonisti sono davvero strepitosi. In sala da giovedì 15 gennaio.