“RICCHI GODETE, QUESTA SARÀ L’ULTIMA VOLTA” – IL DON CARLO DI VERDI TORNA COME TITOLO INAUGURALE DELLA STAGIONE DELLA SCALA. NEL ’68 LA PRIMA FU FUNESTATA DA CONTESTAZIONI CON LANCIO DI UOVA E CACHI DEGLI STUDENTI E COMIZIO DI MARIO CAPANNA – NEL 1992 CI FURONO I FISCHI DEL LOGGIONE A LUCIANO PAVAROTTI. CRITICHE ANCHE NEL 2013 – IL RAPPORTO DI AMORE-ODIO TRA VERDI E MILANO: PER 23 ANNI IL COMPOSITORE IMPOSE A RICORDI DI NON DARE SUE OPERE NUOVE AL PIERMARINI PERCHÉ…
1. CONTESTAZIONI IN PIAZZA E FISCHI DAL LOGGIONE VITA AVVENTUROSA DEL “DON CARLO” ALLA SCALA
Angelo Foletto per “la Repubblica – Milano” -Estratti
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In 155 anni di presenza scaligera, Don Carlo è stato rappresentato 204 volte, in 22 allestimenti. Svariate volte è stato titolo d’inaugurazione. Non quando, il 10 gennaio 1884, la versione attuale, preparata apposta da Verdi per la Scala, fu battezzata e il compositore si occupò della messinscena.
I cinque 7 dicembre del Dopoguerra (1968, 1977, 1992, 2008 e 2023) marcano la presenza dei direttori musicali italiani (da Claudio Abbado a Riccardo Chailly) e di un collega dall’anima scaligero- milanese come Daniele Gatti. Delle opere di Verdi Don Carlo( s) è una delle più problematiche.
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Chailly ha ricordato con commozione le prove cui assistette dell’edizione 1968 di Abbado, che in Don Carlo aveva esordito a Londra, qualche anno prima. Intinto nel tenebroso allestimento di Jean Pierre Ponnelle, quel Don Carlo – la prima inaugurazione scaligera di Abbado da direttore musicale – è passato alla storia della città per ciò che avvenne fuori dal Piermarini. Cancellata la serata di gala a seguito degli avvenimenti tragici di Avola, la cronaca, e le foto, dalla piazza monopolizzò i quotidiani.
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Signore impellicciate e signori in smoking che si riparano dal lancio di uova e cachi degli studenti, in rigoroso eskimo d’ordinanza, “ spontaneamente” convenuti, mentre Mario Capanna arringa gli spauriti “borghesi” che rasentano i muri del teatro («Ricchi godete, questa sarà l’ultima volta»).
Il secondo Don Carlo di Abbado ( 1977) propose per la prima volta (tradotte) parti musicali mai più eseguite dopo la prima di Parigi del 1867. Era l’avvio della maxi-stagione del Bicentenario, ma nessun rappresentante del governo venne alla festa della “Scala comunista” nella Milano socialista. Scontate le proteste per l’emozionante e troppo intelligente spettacolo- sfilata funeraria di Luca Ronconi e Luciano Damiani, ci furono i soliti che ebbero a che dire, come avrebbero replicato per l’Otello, sulla «vocina» di Mirella Freni.
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Nel Don Carlo successivo (1992), fu una maldestra risoluzione acuta del “ fratello di latte” Luciano Pavarotti a far scattare le protesta del loggione. In realtà, sull’esito non persuasivo della produzione freddamente mastodontica pesò il clima di reciproca sfiducia montato tra direttore e regista (Muti e Zeffirelli) durante le prove. Fu la componente visiva a essere contestata alla fine dell’ultimo Don Carlo (2013, regia di Stéphane Braunschweig). Sui leggii c’era la versione-Scala in 4 atti ma alla fine del terzo Gatti non resse alla voglia di inserire la toccante pagina parigina « Chi rende a me quest’uomo » che Verdi avrebbe riscritto come « Lacrimosa » nella Messa di Requiem.
Integrale, senza aggiunte né compromessi, la versione d’autore 1884 sarà diretta da Chailly. Come nel 2003 quando debuttò l’opera ad Amsterdam. Unico rammarico nel maestro, e del pubblico, il fatto di non ascoltare il Ballo della Regina: « Io avrei voluto fare i ballabili anche se sull’opportunità gli studiosi non sono d’accordo», ha detto Chailly. Non ha però trovato la strada spianata nell’impostazione scenica: «A volte la convivenza con i registi è molto complessa».
2. TRA VERDI E IL PIERMARINI UNA STORIA DI AMORE E ODIO E UN DIVORZIO LUNGO 23 ANNI
Angelo Foletto per “la Repubblica – Milano” - Estratti
Mettiamoci l’animo in pace: il Teatro alla Scala non è stato subito «La Scala». Né il più famoso «teatro lirico del mondo» – come proclamava un’indicazione a favore di forestiero di passo, sulla facciata fino a qualche anno fa. E nemmeno d’Italia: nel primo Ottocento la capitale dell’opera era Napoli (episodicamente Venezia e Roma), la città più popolosa d’Italia. E per quel che riguarda la bellezza e le dimensioni della sala, basta rileggere Stendhal.
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Un esempio? Nonostante l’avvio confortante e confortato dall’aneddotica patriottarda legata al successo di Nabucco (ma senza bis del “Va pensiero”: il pubblico della prima preferì riascoltare un altro coro), la configurazione ufficiale di «teatro di Verdi» arrivò alla fine dell’Ottocento. Per 23 anni, fino al 1869, il compositore impose a Ricordi di non dare sue opere nuove a Milano perché insoddisfatto della qualità artistica.
Per quasi quaranta, non gli dedicò una prima assoluta. Ma il fiero sentimento patriottico suscitato – postumo peraltro: Nabucco debuttò nel 1842, e nel 1848 delle Cinque Giornate non era in cartellone – fu sornionamente assecondata dallo stesso autore. Per far combaciare la sua immagine con la Scala nel momento in cui montava l’interesse per gli autori della “Giovane Scuola” operistico-compositiva nazionale.
E ribadire la “popolarità” del melodramma componente fondante e caratteristica dell’identità e unità nazionale. La veniale vanità nazional-popolare dell’anziano musicista fu alimentata, se non richiesta, dall’editore. Infatti, il mercato della musica teatrale doveva controbattere all’offensiva sinfonico-cameristica delle varie Società del Quartetto (quella di Milano è del 1864) e Amici della Musica che stavano “educando” al suono di sinfonie e sonate, trii e quartetti, le aspettative e il gusto moderno degli ascoltatori.
Per cui i grandi editori milanesi di opera scendono in campo. Governando a turno le stagioni scaligere oppure facendosi il proprio teatro: come Sanzogno che resse il Dal Vermeprima di prendere e rinnovare lussuosamente la decrepita Canobbiana ribattezzata Teatro Lirico Internazionale (1894). Il target, come si dice, era costituito dai “nuovi” spettatori: la montante borghesia cittadina. Artisticamente autori e interpreti “di cartello”, in Scala non mancarono...
Per altri versi, fin dalla rapida edificazione – due anni di cantiere per il «solenne aprimento» del 3 agosto 1778 – la sala del Piermarini fu «la Scala». Ovvero più che un simbolo della comunità milanese: un modo di essere e di vivere. E viverci.
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Ancor più, dal Dopoguerra, il 7 dicembre: «Sant’Ambrogio è la sera del grande appello; la bella gente si ritrova, si conta e si misura leggendo le cronache dell’8 dicembre», scrisse Enzo Biagi. Dove in “gente” era sottinteso “di Milano” poiché «la Scala è insieme con la Madonnina e il panettone, un simbolo della capitale della Lombardia».
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