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IL FESTIVAL DEI GIUSTI - SVEGLIATE I FAN DI DAVID FOSTER WALLACE E I NERDONI ANNI ’90 PERCHÉ “THE END OF THE TOUR” È UN FILM MOLTO COMPLESSO, E ANCHE MOLTO PER ADDETTI AI LAVORI, SULLO SCRITTORE SUICIDA
Marco Giusti per Dagospia
Festa di Roma. Beh, svegliate i fan di David Foster Wallace e tutti i nerdoni anni ’90. Perché è un film da non perdere assolutamente e perla assoluta di questa edizione The End of the Tour di James Ponsoldt, scritto da David Marguleis e tratto dal libro del giornalista di “Rolling Stones” David Lipsky.
Non c’è una vera e propria storia, è la messa in scena, meticolosissima, dei cinque giorni che un trentenne David Lipsky, interpretato qui da Jesse Eisenberg, trascorse a Bloomington, a casa di David Foster Wallace, interpretato da Jason Segal, di pochi anni più grande, e in tour con lui a Minneapolis, per un’intervista da pubblicare su “Rolling Stones” dopo lo strepitoso successo dello scrittore col suo capolavoro di 1070 pagine, “Infinite Jest”. Lipsky cerca di stabilire un contatto con uno scrittore molto chiuso e depresso, che aveva già tentato una volta il suicidio, e che non lascia in realtà molte aperture a chi ha davanti.
Da una parte c’è un giovane giornalista di successo in cerca però di un successo maggiore e che quindi soffre in qualche modo la genialità di Wallace, dall’altra parte c’è uno scrittore che si è ritrovato sulle copertine di “Time” ma non sa come relazionarsi col mondo e con le persone.
Si scazzano per delle piccolezze, con Lipsky che si sente obbligato a fare il suo lavoro di giornalista, ma si sente anche in dovere di stringere un’amicizia con un coetaneo di maggior successo.
Si ritrovano sulla follia da nerd, con Wallace che rifiuta di avere a casa la tv, ma si ritrova poi drogato di cinema e tv fuori dalla sua tana, diventa pazzo per Broken Arrow di John Woo e per un vecchio film con Hedy Lamarr in tv, Algiers, di John Berry, se non sbaglio. Wallace è già l’idolo di una generazione che si ritrova descritta nel suo romanzo fiume, ritrova lì sia la propria depressione, i sogni, le manie, perfino gli eccessi. E Wallace sa che Lipsky tenterà, intervistando lui, di fare il suo miglior articolo.
E’ un film molto complesso e anche molto per addetti ai lavori, che diventa però anche qualcosa di assolutamente imperdibile per i quarantenni di oggi e per chi è cresciuto con Wallace e Franzen. I due protagonisti, soprattutto Jason Segal, che ricordiamo in film del tutto diversi, come The Muppets, dove è protagonista e cosceneggiatore, sono incantevoli e riescono a descrivere perfettamente gli stati d’animo di due ragazzi che potrebbero essere amici ma vengono divisi dal successo e dal terrore dello scrittore di rivelarsi troppo rivelando la sua profonda depressione e l’incapacità a costruirsi dei rapporti. Grandissima musica di Danny Elfman.
IL CAST DI THE END OF THE TOUR
Molto divertente anche Showbiz, il documentario di Luca Ferrari, abituale collaboratore di Michele Santoro a “Servizio pubblico”, dedicato alla vita di idoli delle notti televisive degli anni ’90 come Massimo Marino, Shultz e Riccardo Modesti, o personaggi vissuti nell’ombra del successo altrui, come Stefano Natale, amico e modello di certi personaggi di Carlo Verdone. Ferrari segue nelle loro case e nelle loro giornate questi quattro buffi personaggi, legati molto allo stracultismo e al trash televisivo, ma lo fa con estremo pudore e innocenza.
E’ grandioso Massimo Marino che intervista una pornostar, tale Asha Bliss, esperta della masturbazione fatta coi piedi, prima del suo show, ma anche Modesti che presenta una sfilata di intimo in un locale chiamato “Il castagnone”, tra ragazzette col sedere di fuori e vecchi del pubblico. O Shultz che ricorda i suoi anni al “Maurizio Costanzo Show”, dove fu tecnico del suono e personaggio fisso. O Natale che dipinge i quadri capovolti o si cucina un avanzo di pasta con due crackers a casa sua o va a cena coi fan di Verdone che rifanno le battute dei suoi film più celebri.
Per non parlare di Marino che parla della moglie, “è una piattola, me chiama anche quando cago”. Ferrari, che aveva già girato un più duro documentario sugli spacciatori, Pezzi, descrive questa sotto –Grande Bellezza, come un mondo che si è perso dietro il sogno del successo, della tv, del cinema. Ma i singoli ritratti sono tutti affettuosi e si sente che è stato fatto un grande lavoro per arrivare a descrivere l’umanità dei suoi protagonisti.
Devo dire che ho trovato anche molto riuscito il documentario proposto da Sky Arte che è passato al Maxxi dedicato all’arte romana degli anni ’60, Swinging Roma, diretto da Andrea Bettinetti e prodotto da Michele Bongiorno, con bel materiale di repertorio del Luce e grandiose interviste ai protagonisti rimasti, soprattutto a Gianfranco Barucchello, Jannis Kounellis, Nanni Balestrini, Achille Mauri, fratello dell’artista Fabio, a Agnese De Donato, allora proprietaria della libreria “Ferro di cavallo”, Giosetta Fioroni, ovviamente Marina Ripa di Meana, allora fidanzata di Franco Angeli, i vecchi critici Achille Bonito Oliva e Maurizio Calvesi, Carolyn Christov, ecc.
Viene fuori un ritratto molto caldo e umano di una generazione di artisti e di intellettuali che dettero vita a uno dei periodi più fecondi e gioiosi della Roma del secolo scorso e di un’Italia che si apriva clamorosamente al mondo. Qualcosa che solo con l’arrivo del ’68 cambiò forma e indirizzo ma che ancora oggi sembra un eden perduto. Veramente molto divertenti gli interventi di Barucchello e Mauri. Mi sembra anche un modo diverso dal solito di riscrivere la storia dell’arte italiana.