youth giovinezza sorrentino

LA "GIOVINEZZA" DI SORRENTINO - "NON È UN FILM AMBIZIOSO, È UNA COSA INTIMA, SCRITTA NELLA MIA CASA VUOTA: INVECE DI CIONDOLARE IN MUTANDE, MI SONO MESSO AL LAVORO" - "I MIEI SONO MORTI QUANDO AVEVO 17 ANNI, UNA FUGA DI GAS. NON TEMO DI SPARIRE DALLA TERRA, MA DAGLI OCCHI DEI MIEI FIGLI"

Paola Zanuttini per "Il Venerdì - la Repubblica"

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Quando Harvey Keitel ha finito le riprese di La giovinezza in un albergo molto Montagna incantata di Davos, c’è stato un momento piuttosto commovente. «Non so quanto vi resterà dentro questo film» ha detto alla troupe, «ma so quanto resterà dentro di me». Sentiti applausi. La parola commozione e i suoi derivati ricorrono molte volte nella sceneggiatura del film. Sostiene Paolo Sorrentino che le sceneggiature ingannano, amplificano i sentimenti per farli capire a cast e troupe. «Nella Grande Bellezza c’era scritto almeno quindici volte che Toni piangeva, ma se avrà pianto una è tanto. Le emozioni le decido poi sul set».

 

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La giovinezza racconta di due vecchi amici in un hotel-benessere alpino, di quelli dove ti massaggiano sempre, o ti puliscono l’intestino. Keitel è un famoso regista inglese emigrato a Hollywood che scrive il suo film-testamento con una folta schiera di giovani sceneggiatori; Michael Caine è un riverito compositore e direttore d’orchestra che ha tirato i remi in barca: accetta la vecchiaia e i suoi ozi beccheggiando tra apatia e cinismo. Molto british.

 

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Arriva un emissario di Elisabetta II: Sua Maestà vuole festeggiare il compleanno del marito con un concerto e gli chiede di eseguire le sue celeberrime Simple Songs. Non se ne parla: il Maestro non vuol tornare in scena e ha una misteriosa allergia per quelle Songs. Beh, ci sono molti altri fatti, sviluppi e comprimari, compreso un Maradona più bolso dell’originale, ma il nocciolo della storia è questo, cui va aggiunto un dettaglio: i due amici stanno sempre a discutere di Gilda Black, una tipa  che si contendevano da ragazzi. Te la sei portata a letto? La tragedia è che non me lo ricordo.

 

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Sorrentino dice che La giovinezza è una cosa piccola, molto più semplice di La grande bellezza: «È il mio film più intimo, scritto e pensato in poco tempo. Un agosto a Roma con i figli in vacanza e la casa vuota. Invece di ciondolare in mutande, mi sono messo al lavoro». Si può definire piccolo un film opulento di personaggi e divagazioni, con un cast che, oltre ai due protagonisti, include Jane Fonda, Rachel Weisz e Paul Dano? Lui risponde che la misura non si desume dal budget o dalla fama degli attori, ma dall’ambizione che c’è dentro. «E questo non è un film ambizioso».

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Da quando era ragazzo, Sorrentino appunta osservazioni, spunti, ritagli, cose che gli hanno raccontato. In questa banca della memoria c’erano due reperti che hanno cominciato a lampeggiare. «Uno era un fatto di cronaca: la regina Elisabetta aveva invitato Riccardo Muti a Buckingham Palace, ma non si erano messi d’accordo sul repertorio e lui non andò. La cosa mi colpì, perché da buon provinciale pensavo che alla regina non si potesse dire di no, ma Muti, napoletano come me, evidentemente si era sprovincializzato prima. La seconda era il ricordo di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato. Non è che litigassero, ma si avvertiva una certa frizione».

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La giovinezza è pieno di sogni e di visioni. «Non sono i miei. Non ne faccio di così interessanti o degni di essere filmati. In tutti i miei film ci sono i sogni perché possono avere una grande potenza nel creare una sintesi dello stato psicologico del personaggio».  Si è parlato di Fellini per La grande bellezza e se ne parlerà anche per La giovinezza: in particolare , La città delle donne e forse Ginger e Fred, visto il contesto crepuscolare. Sorrentino dice che il secondo non lo ricorda e che il terzo non l’ha neanche visto. Ma si può affermare il diritto di essere postfelliniani senza essere accusati di plagio? Lui obietta che sarebbe troppo presuntuoso: «Fellini mi piace tantissimo, è uno dei pochi miei autori di riferimento, come Scorsese e Truffaut, ma non ho ambizioni di imitarlo o rinnovarlo. Se alcune mie cose gli somigliano vagamente è del tutto involontario».

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Involontaria anche la scena della giraffa della Grande bellezza? Lui risponde di sì. L’unica citazione felliniana consapevole era via Veneto, il confronto tra com’era e com’è. «Ne avevo girata un’altra che ho tagliato: un mendicante che chiede l’elemosina nella Fontana di Trevi. Ma i ricordi si depositano e poi vengono fuori in perfetta anarchia: pensi di fare una cosa originale e invece stava lì. Rivedendo Taxi Diver, ho notato un’inquadratura dell’Aspirina e ho capito da dove avevo copiato un dettaglio dell’Aspirina di Andreotti nel Divo. Certo, con Fellini c’è una comunanza di temi che si vede anche nella Grande bellezza: il disagio esistenziale dell’uomo nella società opulenta era un tema nella Dolce vita come in , a Gambardella manca il terreno sotto i piedi mentre non ci sono ragioni apparenti della sua disperazione: ha soldi, donne, amici. E poi c’è Roma».

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Se gli chiedi della sua poetica, dei suoi tanti personaggi sulla china o già caduti e sprofondati, sgrana gli occhi. Ma se addomestichi la domanda parlando di assenza, nostalgia, senso di perdita, ti viene più dietro. «In questo film il tema forte non è la vecchiaia, la devastazione dei corpi spogliati alle terme, ma il rapporto tra genitori anziani e figli. Mi interessa raccontare la vecchiaia in funzione del rapporto con il futuro, quando ne hai poco davanti, e rispetto ai figli. Il fatto che i vecchi si avviliscono perché si disperde il patrimonio delle cose che hanno fatto per loro. Io ricordo cose eclatanti della mia infanzia, ma non la quotidianità. I miei genitori sono morti quando avevo 17 anni, una fuga di gas nella casa di montagna, ne sono passati 27: la memoria dei vecchi e dei figli si dissolve. È atroce che tutta la quantità e la qualità delle cose che hai fatto per stabilire un rapporto svaniscano. Non mi fa paura sparire dalla Terra, ma dagli occhi dei miei figli».

 

SORRENTINO GARRONE SORRENTINO GARRONE

Entra nello studio un bambino. Con tempismo cinematografico. Dice: «Papà, vado a giocare a pallone in piazza». Sorrentino concorda una ragionevole ora di rientrata e riprende: «Anche nelle famiglie dove regna la felicità il rapporto fra genitori e figli è all’insegna del dolore, in particolare tra maschi. Noi due abbiamo un buonissimo rapporto, ci divertiamo molto, ma è come se da un mobile semiaperto dovesse uscire il dolore. C’è una costante preoccupazione reciproca». Quando leggeva La strada, il romanzo post apocalittico di Cormac McCarthy dove un padre e un figlio tentano di sopravvivere tra le macerie del mondo, ha smesso: «Mi piaceva da morire, ma era lancinante».  

 

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Poi ci pensa su: non è vero che si è scordato proprio tutto. Da un po’ (pochissimo) combatte la sua pigrizia cronica con la ginnastica, roba dolce, niente di impegnativo: pare che il movimento abbia smosso anche la memoria, qualcosa è riaffiorato, persino dall’infanzia. «Ma il problema non è quello dei ricordi, quanto la sproporzione fra le cose che facciamo e quello che rimane». 

 

Per come vanno le cose oggi, a 44 anni, Sorrentino è entrato un po’ in anticipo nello spleen senile che, infatti, nel suo nuovo film tratteggia con sorprendente competenza. Concorda: «Io sono vecchio dentro. Da una vita. Per certe cose sono in anticipo, per altre, come la cultura, l’essere preparati, il capire le cose, sono in ritardo: faccio film che i miei colleghi hanno girato dieci anni prima, anche se sono abbastanza furbo da far credere che sto avanti. Ma sul lato esistenziale sono dovuto crescere in fretta, per istinto di sopravvivenza. Le tragedie personali mi hanno sviluppato un senso di rivalsa: mi chiedevo con che criterio venivano scelti i destinatari dei dolori. E poi, come tanti adolescenti, mi sentivo inadatto e disistimato, e questo mi ha portato ad applicarmi molto, oltre che ad autocompiacermi nel vittimismo».

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Il vittimismo. E qui si apre il capitolo sui rapporti da un po’ non proprio idilliaci con la stampa e la critica italiana che non hanno ecumenicamente apprezzato La grande bellezza. Parlando dei suoi rapporti col mondo, e non necessariamente con i giornalisti, Sorrentino ipotizza: «Molti non si capacitano del salto che c’è fra quello che sono e quello che ottengo. Forse dipende dal fatto che non dico cose brillanti».

 

Passando alla stampa (italiana), ammette che si è disamorato, perché si è accanita troppo, oltre la logica: «Fuori hanno detto tranquillamente “questo è bravo”, ma in Italia hanno risposto che fuori si sbagliavano. Io ribatto che hanno sbagliato loro e si va avanti tranquilli». Si potrebbe sospettare un’insofferenza alle recensioni severe. Smentisce: «Valerio Caprara del Mattino, che stimo, ha criticato molto La grande bellezza, ma argomentando così bene le sue opinioni  da farmi venire il dubbio che avesse ragione».

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La critica potrà dire quel che vuole, ma non che Sorrentino sia a disagio nelle produzioni internazionali. Se in Le conseguenze dell’amore si poteva avvertire un afflato da prove tecniche di cinema europeo e in This Must Be The Place una voglia italiana di road movie, in La giovinezza  – anzi, The Youth – è definitivamente cittadino del mondo.

 

«È una tendenza che si affermerà sempre di più. Da noi si interpreta il cinema in base ai grandi registi del passato, ma per loro la cultura prevalente era quella cui appartenevano, vivevano il rapporto con l’estero da lontano, mentre le nuove generazioni e anch’io, per il rotto cuffia, hanno un piede qui e uno altrove. Infatti a Cannes due dei tre film italiani, il mio e quello di Garrone, sono girati in inglese. Ho visto il trailer di Matteo e poteva sembrare quello di un film australiano, canadese, americano. In concorso ci sarà anche Yorgos Lanthimos, un giovane  greco che non fa certo film greci per come siamo abituati a conoscerli. Nel cinema non saremo più italiani, tedeschi, francesi, americani».

prima foto la grande bellezza prima foto la grande bellezza

 

E l’omologazione? Il rischio di un international (o hollywood) style? L’italiano che ha vinto l’Oscar (dopo 15 anni) non se ne preoccupa. «Spero di mantenere il mio sguardo personale. Il problema è tenere insieme il particolare e l’universale, l’Italia e il mondo. Negli ultimi anni il nostro cinema ha faticato su questo fronte, ma c’è anche chi c’è riuscito, per esempio, Bertolucci. Quando ho presentato a Cannes Il divo, che è un film sulla psicologia del potere, Sean Penn, allora presidente della giuria, mi disse che per lui era Kissinger, per un francese, invece, era Giscard d’Estaing».

 

bertolucci bertolucci

P.S. The Youth, a suo modo, finisce bene. Volete il messaggio d’autore? «A ottant’anni non si deve per forza rinunciare a un’idea di domani. Col passato non si è liberi perché è andato, col presente lo si è poco, ma il futuro, anche se breve, è la più grande prospettiva di libertà che abbiamo».

 

 

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