IN RICORDO DI ELISABETTA CATALANO - “IL FOGLIO”: “OGNI SUA FOTOGRAFIA È IL BREVE MA INFINITO ROMANZO DI UN INCONTRO. ESSERE IMMORTALATI DA LEI ERA UN MODO PER CAPIRE QUALCOSA DI SÉ. PER QUANTO BELLI CI SI CREDEVA, SOTTO IL SUO OBIETTIVO, ALTRO NON SI ERA CHE QUEL CHE SI ERA”
Alberto Arbasino negli anni Sessanta, in una foto di Elisabetta Catalano - Da _Il Foglio_
Umberto Silva per “il Foglio”
Elisabetta Catalano era una donna molto generosa. Quella volta che scappai di casa lei mi disse che potevo abitare una parte del suo mitico studio di piazza Santi Apostoli. La ringraziai e ci stetti per sei anni, in una delle mie sale era sepolto un cardinale inglese. Una porticina mi divideva da Elisabetta e così spesso andavo a trovarla.
Conversare con lei era un arricchimento, una donna coltissima regalava la sua curiosità e sapienza agli amici. Il suo sguardo sulle cose e sulle persone era preciso, deciso e a volte implacabile, quel che occorreva in un gran mondo che per viltà si rifugiava nell’approssimazione. Vederla preparare il set, disporre le luci e affrontare con leggerezza estrema i suoi artisti, era un piacere.
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Danzava attorno a loro, provocandoli con domande birichine, invitandoli a uscire dal guscio senza sentirsi in dovere di cercarne subito un altro. Detestava le pose, aspettava che, dimentico del proprio timore, ciascuno si esponesse, abbandonandosi al tempo, al suo tempo. Ogni fotografia di Elisabetta è il breve ma infinito romanzo di un incontro. L’avevo conosciuta quando ancora viveva con Fabio Mauri, anche lui caro amico di una vita, la cui scomparsa provocò in tutti noi e in lei in particolare un cocente dolore.
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Anche quando Elisabetta si lasciò con Fabio in realtà stavano sempre insieme, indissolubili. Si consigliavano a vicenda, si rimbrottavano, si volevano bene. Si stimavano, era impossibile con l’uno parlar male dell’altro, il che a volte risultava un po’ seccante. Sulle fotografie di Elisabetta Alberto Arbasino ha scritto frasi ormai storiche. Essere fotografati da lei era un modo per capire qualcosa di sé, innanzitutto che per quante smorfie si faceva e belli ci si credeva, altro non si era, sotto il suo obiettivo, che quel che davvero si era.
Ma non solo, anche quello che si era stati e si sarebbe diventati; Elisabetta ritrasse un’epoca, una società artistica, ma soprattutto con i suoi occhi cerulei colse… l’anima? La profondità, la verità? La bellezza? Mah. Per quanto possa suonare strano direi la serietà, la misteriosa serietà che spesso controvoglia ciascuno porta in sé, sigillo del suo destino.