LA FINE DI INTERNET - PER IL CAPO DI GOOGLE, “LA RETE SPARIRÀ”. OVVERO, SARÀ OVUNQUE, E NON CE NE ACCORGEREMO - MA TRA CENSURA E INTERCETTAZIONI, L’UTOPIA DELLA RETE RISCHIA DI FINIRE DAVVERO
1. ERIC SCHMIDT: INTERNET È DESTINATA A SPARIRE - SEMPLICEMENTE, LA RETE DEL FUTURO PROSSIMO SARÀ OVUNQUE
Rupert Murdoch left Wendi Deng center and Eric Schmidt deng copy
Giorgio Baratto per www.wired.it
La si può tranquillamente considerare una provocazione dialettica. Che il massimo dirigente di Google affermi che “Internet è destinata a sparire“ sembra una frase studiata a tavolino per “bucare” e assicurarsi l’interesse dei lettori. Infatti, Eric Schmidt, una volta attirata l’attenzione della platea del World Economic Forum tenutosi a Davos, Svizzera, ha precisato che la Rete più che sparire, semplicemente troverà un nuovo spazio, meno intrusivo, per essere presente tutto intorno a noi.
“Saremo circondati da così tanti sensori e accessori connessi alla Rete, che pur essendo ovunque sarà sempre più difficile rendersene conto“, ha specificato Schmidt. Immaginiamo una stanza della nostra casa in cui tutti gli oggetti tecnologici siano collegati alla Rete: “Diventeranno una presenza normale, interagire con loro un’abitudine quotidiana”, ammette il presidente esecutivo di Google. “E così Internet, pur passando in secondo piano, permetterà di far emergere un mondo altamente personalizzato, altamente interattivo e decisamente interessante.”
C’è ancora chi pensa di non aver bisogno di Internet. Un po’ come quando una ventina di anni fa si andava fieri di non avere un telefonino, ma è chiaro che ormai “Non è più possibile isolarsi dalla Rete. Gli stessi Governi non possono più prescindere da Internet per quanto riguarda l’aspetto bancario, quello delle comunicazioni e del nuovo modo in cui i cittadini hanno imparato a comunicare.”
Eppure, sempre in occasione del WEF di quest’anno, altre considerazioni hanno cercato di analizzare il futuro della Rete. Sheryl Sandberg, Direttore Operativo di Facebook, ha fatto notare che il cambio, per ora è solo la punta di un iceberg destinato a diventare sempre più grande: “Al giorno d’oggi solo il 40% della popolazione mondiale ha accesso a Internet. Immaginiamoci quanto potrebbero cambiare le cose quando la percentuale salirà al 50 o al 60 per cento.”
NEST LABS IL TERMOSTATO INTELLIGENTE
Sandberg puntualizza anche un altro aspetto che se al momento può sembrare più che ovvio, solo un paio di decadi fa era da considerarsi impensabile. “Grazie a Internet, adesso, tutti possono dire cosa pensano, tutti possono commentare una notizia, postare il proprio pensiero. La Rete ha dato voce a una popolazione che storicamente non l’ha mai avuta.”
matteo renzi smarketta il libro di sheryl sandberg
Trattandosi di un Forum che ha a che fare con l’economia, anche il problema del lavoro è stato preso in considerazione, analizzando la nuova rivoluzione tecnologica che sta vivendo il mercato. “Tutti sono preoccupati per i posti di lavoro, ma semplicemente perché la trasformazione sta avvenendo a una velocità che non si è mai vista prima“, ha ammesso la Sandberg. “Però non dobbiamo dimenticare che la tecnologia non crea solo posti di lavoro tecnologici.“ Una statistica, citata da Eric Schmidt, infatti, mostra che per ogni posto di lavoro “tecnologico” si vengono a creare altri 5/7 posti di lavoro in altre aree economiche.
Forse è un mercato alla cui velocità non siamo abituati; forse presto vivremo circondati da un Rete che non potremo vedere; ma sembra che sia un mondo che non dovremmo temere, anzi.
2. COSÌ È TRAMONTATA L’UTOPIA DI INTERNET
Fabio Chiusi per “la Repubblica”
«Diamo l’idea di pensare che la libertà non valga più il rischio », scriveva David Weinberger per il decennale della pubblicazione del Cluetrain Manifesto. Un documento eretico, che in 95 tesi e otto mani – le sue, più quelle di Rick Levine, Doc Searls e Christopher Locke – delineava il passaggio dalla cultura di massa stereotipata, standardizzata e spersonalizzante dell’era televisiva a quella della civiltà connessa, con l’avvento e la diffusione di Internet.
Era il 1999, e gli autori anticipavano di un lustro la rete dei social network, il “web 2.0” scrivendo, fin dall’attacco, che «è cominciata una potente conversazione globale», che quelle conversazioni non sono altro che “mercati” e che quei mercati, fattisi parola, ci somigliano di più. Perché basati su relazioni tra esseri umani – non tra “consumatori”; e perché quelle relazioni sono a loro volta create e mantenute dall’essenza della Rete: i link, che secondo il Manifesto «sovvertono le gerarchie ».
Rick Levine, Doc Searls David Weinberger Christopher Locke
Non stupisce dunque che Weinberger e Searls abbiano deciso di aggiornarlo con 121 nuove “idee” proprio in questo preciso momento storico, che vede gli ideali di libertà, condivisione e collaborazione paritaria che hanno dato vita alla Rete che conosciamo in crisi come mai prima d’ora. Gli autori lo dicono fin dalla premessa: «tutto ciò che di buono abbiamo fatto insieme ora corre pericoli mortali ».
E per convincersene non serve nemmeno ripercorrere diciotto mesi di Datagate e polemiche sul rapporto tra libertà e sicurezza nell’era della sorveglianza digitale di massa. Basta osservare le reazioni all’attentato a Charlie Hebdo, l’ipocrisia dei leader mondiali in marcia per la libera espressione a Parigi e poi, appena rientrati in patria, nuovamente intenti a sorvegliare e reprimere – meglio se tramite “misure eccezionali” con pochi o nulli contrappesi democratici.
Ma il problema, argomentano gli autori, non sono solo gli “Sciocchi”, coloro che «non capivano di non avere capito Internet ». Oggi ci sono due “orde” aggiuntive: i “Predoni”, che comprendono Internet ma lo usano solo per “depredarlo”, mutandolo in una mera fonte di denaro; e, soprattutto, “Noi”, l’orda “più pericolosa”. Noi che vogliamo intrattenimento, e che per fruirne siamo disposti a dimenticare che la Rete è molto più di una grande tv via cavo, e che «il suo superpotere è connetterci senza autorizzazioni». Ovvero, farne «ciò che vogliamo ».
Tempo di reclamare questo superpotere, scrivono Weinberger e Searls, senza accontentarci dei contenuti che ci propinano gli Sciocchi e i Predoni, e senza «consentire ai memi di sovrastare il pianto dei disperati » o che “un tratto di penna” o “una stretta di mano nascosta” ci privino della Rete che amiamo. E allora perché la libertà sembra non valere più il rischio? Perché ovunque serpeggia il motto del Grande Inquisitore, di rinunciarvi nel nome di una più comoda felicità che, qui e ora, non è che un ipocrita sinonimo di sicurezza?
Per capirlo bisogna tornare a In difesa dell’ottimismo, al Weinberger del 2008 e alla realizzazione che nel Manifesto originale «avevamo ragione, ma non del tutto». L’errore, ammette il guru del Berkman Center di Harvard, sta nell’aver sottovalutato le resistenze del mondo che la Rete ha travolto. Ed è questa la lezione per noi tutti, più attuale di molti dei pur attuali passaggi di entrambi i documenti, il vecchio e il nuovo: l’errore è stato soprattutto credere che la cyber-utopia potesse realizzarsi da sé, per un qualche destino o automatismo della tecnica, e non solo al costo di una terribile fatica individuale e collettiva.
«La lezione principale che ho appreso», si legge nel commento di Weinberger, «non è che il cyber-utopismo è sbagliato. È che i valori di Internet non si realizzeranno senza il nostro aiuto». Così non sorprende che oggi le nuove tesi parlino di conservare la neutralità della Rete, ossia l’uguaglianza dei bit; del rischio che i Big Data ci soffochino e diventino una dittatura automatica («Personale è umano, personalizzato no»); del fatto economico che le concentrazioni di potere, lungi dal non avere più diritto di cittadinanza, continuino a trasformare la concorrenza in monopolio. E non sorprende che quelle tesi invitino a reagire a problemi, invece di snocciolare proclami assolutistici come i vecchi «siamo immuni dalla pubblicità» o «disponiamo di un vero potere, e lo sappiamo».
Il nuovo Manifesto, rispetto al precedente, sembra così più un documento di reazione che di rivoluzione, una lotta di resistenza più che di conquista. Si tratta infatti di essere “ipervigili” sui modi in cui le “lenti” dei colossi web dettano i nostri sguardi, chiedere lo stop alla raccolta di dati «che non vi riguardano e le vostre macchine male interpretano», ribadire il valore dell’open web rispetto ai “giardini recintati” delle applicazioni, che mettono a repentaglio i beni comuni che stavamo faticosamente creando tutti insieme, si legge. Gli autori sono ottimisti perché Internet avrebbe liberato una «forza antica – la gravità che ci tiene insieme », e perché «la gravità della connessione è amore», come scrivono nella lingua ereditata dall’utopismo californiano da cui ha avuto origine la rivoluzione digitale.
Ma sotto le immagini cova una chiamata alle armi, che testimonia piuttosto la gravità della situazione attuale, certificata da tutti i dati: censura e sorveglianza sono in costante aumento, le tecniche di manipolazione del consenso e dei nostri comportamenti sono sempre più sofisticate e invisibili, e a quasi tre lustri dall’11 settembre non abbiamo ancora compreso che reagire al terrore con la paura significa comprimere le libertà individuali senza sconfiggere il terrorismo.
«Abbiamo ancora la fede iniziale », scrivono Searls e Weinberger: il problema è che a essere laici non si vedono divinità connesse quanto piuttosto enunciazioni di totalitarismo elettronico come quella di David Cameron, per cui nessuna forma di comunicazione deve poter sfuggire all’occhio dello Stato. L’analisi tuttavia è corretta: l’utopia è morta, se non siamo Noi a opporci.