METAFORA CAPITALE - JOYCE: ‘ROMA? COME UN UOMO CHE SI MANTIENE MOSTRANDO AI VIAGGIATORI IL CADAVERE DI SUA NONNA’ – I ROMANI? PREOCCUPATI SOLO DELLO STATO DEI LORO COGLIONI, IL LORO MASSIMO DIVERTIMENTO È SCOREGGIARE’

Antonio Gurrado per ‘Il Foglio'

Un furto fu la causa dei sette mesi che Joyce trascorse a Roma; un furto vi pose fine. Nel luglio del 1906 il signor Bertelli, vicedirettore della Berlitz School di Trieste dove Joyce insegnava inglese, penetrò di nascosto nella sede della scuola e fuggì con la cassa.

La Berlitz convocò i dipendenti comunicando di non essere più in grado di pagare gli stipendi e Joyce, sempre in bolletta, iniziò a compulsare gli annunci di lavoro sui quotidiani. Sulla Tribuna ne notò uno allettante che richiedeva un "giovane venticinquenne, che parli e scriva perfettamente francese ed inglese" come corrispondente per la filiale romana di una banca austriaca: la Nast-Kolb & Schumacher, in via San Claudio 87, vicino a via del Corso.

Si propose e gli venne offerto un colloquio; Joyce corse dunque in stazione con il figlio Giorgio, nato a Trieste un anno prima, e con Nora, la cameriera d'albergo semianalfabeta insieme alla quale si era imbarcato da Dublino nell'ottobre di due anni prima approfittando della sua mansuetudine per coinvolgerla nel proprio furibondo esilio volontario dall'Irlanda.

Raggiunta Fiume in treno, i tre s'imbarcarono sul piroscafo notturno per Ancona. Il mare era agitato. Giorgio non patì il viaggio ma i genitori arrivarono a destinazione stanchi morti, con lo stomaco scombussolato, e Ancona non risultò di loro gradimento: nelle lettere al fratello Stanislaus, rimasto a Trieste, Joyce definì Ancona "lurido buco", "cavolo marcio", e sostenne di "non riuscire a pensarci senza ripugnanza" perché "nella sua squallida scarna misera bruttezza c'è qualcosa di irlandese".

Sul treno per Roma pensò che la capitale del Regno d'Italia non potesse essere peggiore di Dublino. Le lettere tramite le quali informava Stanislaus con ammirevoli regolarità e dovizia, rese pubbliche solo nel 1966 e ora disponibili nel volume "Lettere" (edizioni PGreco), dimostrano che sulle prime Roma non gli dispiacque affatto.

Joyce arrivò la sera del 31 luglio e prese una camera in via Frattina 52, dove oggi c'è un salone di bellezza. Il colloquio con la banca andò bene e accettò senza batter ciglio un orario di lavoro "terribilmente lungo", dalle otto e trenta alle dodici e dalle quattordici alle diciannove e trenta: nel tempo libero, spiegava, "non ho molto altro da fare" se non passeggiare per la città, nonostante che "le strade confondano molto". Il labirinto urbano doveva disorientarlo oltremodo.

Quando era bambino suo padre soleva dire che avrebbero potuto paracadutare il piccolo Joyce in mezzo al deserto e questi, senza scoraggiarsi, si sarebbe seduto e avrebbe tracciato una mappa dei dintorni; a Roma invece si perse due volte nel primo giorno. Vagando gli capitò di ascoltare la banda in piazza Colonna e di notare che i rigattieri fossero più economici di quelli di Trieste; non era vero, e facendo i conti di casa l'avrebbe scoperto presto. Il lavoro lo faceva sentire ricco, con moderazione, e sulle prime gli sembrava "facile e meccanico".

Il Joyce romano aveva ventiquattro anni e attendeva buone notizie dall'Irlanda, dove l'editore Grant Richards aveva apprezzato oltremodo "Gente di Dublino" e gli aveva promesso di pubblicarlo a breve. La settimana dopo dominava molto meglio la topografia. Al primo giorno festivo disponibile volle visitare San Pietro, il Pincio, i Fori, il Colosseo; gli occhi iniziarono a smentire le sue aspettative di uomo colto e curioso.

Il Pincio gli sembrò "un bel giardino", nulla di più, mentre San Pietro non gli parve "molto più grande di San Paolo a Londra; la cupola dell'interno non dà la stessa impressione d'altezza". Al Colosseo venne abbordato da una sedicente guida che gli chiese soldi. La massima delusione fu il Vaticano, "chiuso di domenica, l'unico giorno che ho libero".

Cattolico rinnegato e raffinato esteta, Joyce era un grande appassionato di liturgia. Era andato a San Pietro apposta per "sentire della gran musica alla Messa ma non era un gran che". Dopo le chiese, la seconda cosa che Joyce cercava in una città erano i caffè.

Anche in questo Roma si rivelò un po' troppo indolente: trovò solo "dei piccoli caffè-bar", dove non gli sarebbe stato possibile restare per ore a leggere in pace e a ripararsi dal caldo, e si vide "costretto ad andare in un piccolo ristorante greco" di cui si diceva che fosse frequentato da scrittori di ogni nazione: con ogni evidenza, il caffè Greco di via Condotti. Mentre Joyce stentava, procedeva invece alla perfezione l'ambientamento di Giorgio; i romani lo adoravano, lo fermavano per strada, gli facevano le coccole e gli regalavano biscotti. A Roma il bimbo era felice. Dal giorno dell'arrivo, scriveva Joyce, "non credo che abbia pianto una sola volta".

In attesa di notizie dall'editore irlandese, a Roma Joyce aveva due preoccupazioni: il cibo e il socialismo. Il primo non mancava mai ma gli costava non poco: lui e Nora compravano la carne già cotta e la mangiavano nell'adiacente "bottiglieria" del signor Pace, che forniva loro piatti e - anche se Joyce non lo ammette - vino in abbondanza. La fame patita a Trieste era un lontano ricordo: una sera avevano mangiato pane, prosciutto e pollo ed erano andati a letto ancora con un certo appetito; un'altra sera, minestra, spaghetti al sugo, carne, pane e formaggio.

L'8 ottobre, per celebrare l'anniversario della partenza dall'Irlanda ("il mio sposalizio, il giorno della mia felicità"), lui e Nora si erano concessi sei pasti completi: il primo alle dieci e mezza del mattino, l'ultimo alle nove e mezza di sera. Non sorprende che di notte lo cogliessero gli incubi: "Sono tormentato ogni sera da sogni orribili e terrorizzanti: morti, cadaveri, assassini in cui ho una parte spiacevolmente preminente". Il socialismo era invece il principale motivo di attrito con Stanislaus, il quale non conveniva che "un rinvio dell'emancipazione del proletariato, o un ritorno al clericalismo o all'aristocrazia o al borghesismo, equivarrebbe a un ripiegamento verso tirannidi d'ogni sorta".

Il Partito socialista italiano si preparava intanto al congresso dell'ottobre 1906 e già a fine agosto Joyce prevedeva con facilità la rottura fra il direttore dell'Avanti Enrico Ferri e il sindacalista Antonio Labriola. Joyce era dalla parte di quest'ultimo: "Una persona che mi interessa molto", di cui ammirava l'eloquenza, la capacità di parlare senza interruzione per ore, il rifiuto degli intellettualismi di Ferri e la volontà di "accelerare direttamente l'insorgere del proletariato".

Parlandogliene, cercava anche di spiegare a Stanislaus cosa fossero i sindacalisti: "Sono dei trade-unionists", scriveva, "ma con un programma decisamente antisociale. Le loro armi sono gli scioperi. Si rifiutano di interessarsi alla politica o alla religione. Non desiderano impadronirsi dei poteri pubblici che, dicono, servono solo in fondo a sostenere il governo borghese". Pur sentendosi più vicino alle loro posizioni, Joyce però si manteneva scettico: se per i socialisti era impossibile una nuova guerra internazionale, argomentava, perché mai per i sindacalisti avrebbe dovuto essere possibile uno sciopero generale nazionale? Per questo forse la sua dottrina politica risultava sfumata; un giorno, nella solita bottiglieria, il nipote del titolare chiese: "Zio, è socialista il signor Giacomo?", e il signor Pace rispose: "E' un po' di tutto".

Nella stessa bottiglieria Joyce aveva parlato con passione delle istanze socialiste a un vecchio prete siciliano: la sua posizione era che la chiesa ritenesse il socialismo un'eresia perché temeva l'esproprio dei beni ecclesiastici. Il vecchio prete sorrise e per tutta risposta gli offrì il dolce; poi cambiò discorso sostenendo di voler comprare una pistola per difendersi nei vicoli e lasciando Joyce esterrefatto.

L'onnipresenza del cattolicesimo a Roma lo rese se possibile ancora più ambivalente nel proprio atteggiamento: da un lato era un fervido lettore delle tirate anticlericali dell'Asino, dall'altro passava intere giornate alla Biblioteca Vittorio Emanuele ("Che nome bestialmente lungo!") per documentarsi sul Concilio Vaticano e sull'infallibilità del Papa. Giorgio, serafico, faceva grandi progressi con l'italiano; imparò rapidamente a dire "o Gesù mio", poi "addio", "bua" e addirittura "lalia", che stava per il Giornale d'Italia - oltre, naturalmente, alla parola chiave "appetito".

Joyce era invece arrivato in Italia sapendo la lingua del Trecento imparata sui testi di Dante e Dino Compagni (diceva "sirocchia" anziché "sorella") ma, una volta a Roma, era completamente padrone dell'idioma corrente. A Stanislaus raccontava che lo faceva impazzire l'espressione "di' un po'": "Ogni impiegato che arriva qui da un'altra sezione entra con un'aria abbattuta e preoccupata, va da qualche collega e mormora di' un po'".

Lo irritava invece la burocrazia, specie quando dovette trascorrere due ore all'ufficio postale nel vano tentativo di riscuotere un vaglia inviato dal fratello, arrivando a rischiare una rissa con l'addetto. L'Italia da impiegato gli sembrava inconciliabile con quella rarefatta che Henry James aveva visitato da viaggiatore e intellettuale.

In particolare Roma era la quintessenza della prosaicità: "A quanto ho potuto vedere la massima preoccupazione dei romani è lo stato gonfio, rotto, etc., dei loro coglioni e il loro massimo passatempo e scherzo è di scoreggiare". A conti fatti, di Roma apprezzava "l'aria e l'acqua"; per il resto, lo sconforto prendeva forma. Il 24 settembre, una calda domenica, Joyce andò ai Fori, si sedette su una panca e si assopì. In questo deliquio, fra le rovine, gli venne in mente la celebre metafora secondo la quale Roma è come "un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna".

Pieno di questo pensiero decise di "tornare tristemente a casa" ma passò davanti alla chiesa dei Santi Domenico e Sisto e non seppe resistere alla tentazione di entrare. "Ho osservato due suore che si confessavano", raccontò; "finita la confessione si sono inginocchiate accanto a me. Poi sono iniziati i vespri. Poi c'è stato il rosario. Poi c'è stata una predica. Il signore che la faceva si è rivolto quasi sempre a me. Forse avevo un aspetto pio. Non ho aspettato la benedizione". La montante insoddisfazione nei confronti della sua vita romana non aveva a che fare con la povertà, alla quale aveva sempre fatto fronte con disinvoltura.

Era piuttosto una frustrazione doppia, per l'eccesso di lavoro d'ufficio e perché Grant Richards continuava a rimandare la pubblicazione di "Gente di Dublino". Joyce lamentava il destino di "scrivere lettere per dieci ore al giorno come un demonio dell'inferno con la vaga speranza di soddisfare tre banchieri irritabili mentre (come privilegio) mi è concesso di litigare per due anni con lo stesso editore, cercando di indurlo a pubblicare un libro che ammira immensamente". Ciò detto, i soldi non bastavano.

Per guadagnare un altro po' aveva iniziato a dare lezioni private d'inglese, una volta uscito dalla banca: cominciava alle venti e spesso andava avanti tutta la sera. All'apice dello scontento inviò una minuziosa lettera a Richards, il quale si rifiutava di stampare la parola "fottuto", cercando un compromesso sulle pagine in cui bisognava mantenerla e quelle da cui la si poteva espungere.

Dopo due mesi e mezzo a Roma Joyce non solo non aveva più tempo per scrivere ma nemmeno alcuna voglia. Gli mancava "una ragione per farlo"; non voleva terminare il romanzo "Dedalus" sapendo che, una volta presentato il manoscritto, sarebbero conseguite "le medesime obiezioni e le medesime lettere".

A fine settembre però aveva scritto a Stanislaus di avere avuto un'idea per un racconto: voleva mettere su carta la storia di un ebreo dublinese, Mr Hunter, di cui si vociferava che fosse cornuto ma che dimostrava buon cuore salvando un giovane scrittore da una rissa al bordello. In tutta la permanenza romana Joyce di questo vago progetto scrisse un'unica parola, il titolo: "Ulisse".

Il 13 novembre le idee erano diventate più chiare. Intendeva scrivere un romanzo scevro "delle menzogne idiote sugli uomini puri e le donne pure e l'amore spirituale e l'amore eterno"; voleva che il protagonista fosse un uomo considerato nel complesso. Inoltre intuì subito di avere bisogno, pur non sapendo bene perché, di una mappa di Dublino; i lettori dell'"Ulisse" sanno che gli è servita davvero.

Il fatto è che proprio a Roma Joyce iniziò a maturare il rimpianto per l'Irlanda, il senso di colpa per non averla trattata a dovere artisticamente e politicamente (lo rimarca anche Enrico Terrinoni in "Attraverso uno specchio oscuro", guida alla lettura politica dell'"Ulisse" che sarà pubblicata a giorni da Universitas Studiorum).

Già a metà settembre sognava di trovarsi "in una località balneare irlandese" e a fine mese ammise che "a volte, pensando all'Irlanda, mi pare di essere stato più duro del necessario". Si doleva di non avere presentato in "Gente di Dublino" "nessuna delle attrazioni della città né la sua ingenua insularità" e di "non avere reso giustizia alla sua bellezza". Dichiarava che in nessun'altra città si era sentito altrettanto a suo agio.

Ammetteva tuttavia che l'Italia aveva "due cose per bilanciare la sua miserabile povertà e l'insufficienza burocratica: un movimento intellettuale vivace e un buon clima"; l'Irlanda, invece, "è l'Italia meno queste due cose". La situazione a Roma prese a precipitare rapidamente. Il 14 novembre Joyce sentì esplodere una bomba piazzata al caffè Aragno e commentò: "Che bel paese!". Il 19 scoppiò un'altra bomba, stavolta nei pressi di San Pietro, durante la messa del mattino alla quale solo un contrattempo aveva impedito che Joyce partecipasse. Non per questo si fece scoraggiare e vi si recò comunque a vedere una processione al pomeriggio: il cardinal Rampolla, già segretario di stato, sfidava il pericolo passando senza protezioni tra la gente, recando in mano le reliquie della Passione.

Quando, due giorni dopo, una terza bomba scoppiò a piazza di Spagna Joyce iniziò a sospettare che "ciò possa non essere opera di anarchici. Sono costruite in modo molto primitivo e non provocano danni. Potrebbe essere un trucco della polizia per giustificare arresti di sospetti poiché arriverà qui il Re di Grecia fra qualche giorno".

Nel privato le cose non andavano meglio. A fine novembre era diventato professore in una squallida "Ecole de Langues" serale i cui allievi riottosi lo deridevano credendo che non capisse l'italiano. Inoltre la padrona di casa li aveva sfrattati da via Frattina perché - ma lui non lo ammetteva - Joyce era ubriaco troppo spesso.

Accampato con moglie e figlio in un albergo che gravava oltremodo sulle striminzite finanze familiari, a inizio dicembre scriveva a Stanislaus che Henry James "si meriterebbe un calcio nel sedere per le idiozie sentimentali che ha scritto. Sono dannatamente stufo dell'Italia e degli italiani. Ogni volta che un alunno mi chiede se mi piace Roma rispondo con qualche espressione ironica.

Odio pensare che gli italiani abbiano mai fatto qualcosa nel campo dell'arte. Loro sono convinti di avere un monopolio. Sono stufo del loro bello e bellezza". Degli ultimi tre mesi di Joyce a Roma si sa poco.

Aveva trovato alloggio vicino al Lungotevere Marzio, in via Monte Brianzo 51, ma era costretto a dormire con Nora in un letto troppo piccolo, l'uno con la testa verso i piedi dell'altra. La ricerca di altre stanze si rivelava infruttuosa perché nessuno voleva affittare a una famiglia di stranieri poveri con bambino. Con l'inverno Joyce diradò le lettere perché aveva "troppo freddo per scrivere"; testimoniava inoltre che "l'interesse per il socialismo mi ha abbandonato". Sentiva che era giunto il momento pressante di scegliere "se diventare uno scrittore" o restare un impiegato; il 14 febbraio decise dunque di dimettersi dalla banca e due giorni dopo si rese conto: "Ho fatto una coglioneria".

Il 6 marzo si presentò a ritirare gli ultimi soldi che la Nast-Kolb & Schumacher gli doveva e pensò bene di berseli ma, quando fece per pagare, non li trovò più. Mentre era ubriaco lo avevano derubato di tutta la somma tranne pochi spiccioli per inviare il giorno dopo un telegramma a Stanislaus a Trieste: "Arrivo otto trova stanza". Ma non glielo mandò da Roma; preferì prima mettersi in viaggio e poi spedirglielo.

 

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