mainetti jeeg

LO CHIAMAVANO JEEG MAINETTI - “HO LOTTATO 6 ANNI PER REALIZZARE IL MIO FILM. I PRODUTTORI MI DICEVANO: ‘MA CHE È QUESTA STRONZATA?’. DALL’AMERICA MI HANNO GIÀ CHIAMATO PER IL REMAKE - IL MIO SUPEREROE È UN SIMBOLO DI RISCATTO MA NON È DI SINISTRA”

gabriele mainettigabriele mainetti

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera”

 

Il protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot è un supereroe, e lui, Gabriele Mainetti, il suo creatore, è un marziano: un marziano a Roma, 66 anni dopo l’omonima fischiatissima commedia di Flaiano. Solo che qui, dopo aver vinto sette David di Donatello, c’è il lieto fine. Cronaca di un film cult (col senno di poi). Perché all’inizio, come racconta l’esordiente regista romano di 39 anni, nessun produttore voleva averci a che fare, «rifiutavano perfino l’idea di farlo, “ma che è questa str..., gira un film più semplice”».

claudio santamaria david jeeg robotclaudio santamaria david jeeg robot

 

Quali erano i pregiudizi?

«Non c’erano capacità tecniche, è un tipo di film che non funzionano. Dopo quasi sei anni me lo sono prodotto da solo, con l’aiuto di Rai Cinema. Ai David mi sono tolto qualche sassolino dalle scarpe. È costato 1 milione e 700 mila euro, ne ha incassati 3 milioni e 400 mila, e da domani Lucky Red lo fa riuscire in 200 sale».

 

È un’idea di importazione americana.

«Sì, e l’America l’ha comprato, mi hanno già chiamato per il remake ma non ho preso decisioni. Anche perché l’ho fatto con altro spirito, quello della sperimentazione».

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È stato l’anno di un genere estraneo alla tradizione italiana, il fantasy, con sette statuette a testa per lei e per «l racconto dei racconti» di Matteo Garrone.

«Quello di Matteo è un fantasy vero,con i draghi, i corpi che si trasformano. Io invece condisco la realtà della periferia romana con un elemento sovrannaturale, e lo spettatore quando entra in scena Jeeg Robot dice: e questo chi è, cosa sta succedendo?».

 

Movimenti e centri sociali hanno cercato di impossessarsi della sua «creatura»: è un film politico?

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«È la storia di un piccolo criminale di periferia che casualmente scopre di avere una forza sovraumana. È inevitabile non riconoscergli il riscatto sociale. Il riscatto è un veicolo emotivo per chiunque: contro la malattia, nell’ambito lavorativo... Jeeg Robot è diventato la bandiera contro la chiusura di spazi sociali, contro i vessati da Equitalia. Il mio film non è né di destra né di sinistra, è di tutti, non è di pochi».

 

Chi ci vede la politica...

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«È perché non riesce a vedere altro. Ciò che conta semmai è l’etica. Claudio Santamaria, il protagonista, cambia quando incontra una donna, lui aveva tutte le ragioni del mondo per essere egoista, eppure diventa un’altra persona dopo un incontro. Come dice Rocky, se sono cambiato io, tutto il mondo può cambiare».

 

Lei viene da una famiglia di imprenditori, la sua storia è tutta diversa da quella del suo protagonista.

«Mio padre è imprenditore, ma ho fatto un film per conto mio e ci ho messo quasi sei anni. Io non sono mio padre. All’estero se si parla di “figli di” s’intende un’eredità intellettuale importante per cui si aspettano tanto da te, qui in Italia non è così».

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Il cinema è stata la sua scelta da sempre?

«Sì, da piccolo ricreavo nella mia stanza gli ambienti che vedevo nei film alla tv, ricordo a Lo chiamavano Trinità con Terence Hill. Ho studiato Storia e critica del cinema al Dams, nel frattempo ho recitato in diverse fiction, e il fatto che quattro dei sette David siano andati agli attori, protagonisti e non, è una soddisfazione enorme. Ho girato il cortometraggio Tiger Boy che, grazie a un premio importante in Australia, entrò nella short list degli Oscar per quella categoria. Sono cresciuto con i film di Spielberg, Zemeckis, Monicelli e con l’horror Zio Tibia».

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Lei in questo film è anche autore delle musiche: compositore come Chaplin.

«Lo prendo come un augurio, naturalmente. Le ho scritte con Michele Braga, all’inizio avevano un impianto sinfonico che avrebbe cannibalizzato il film, poi abbiamo optato per musiche minimaliste elettroniche, più in linea con la storia. I David hanno premiato la voglia di storie diverse, il coraggio, l’originalità, non gli epigoni di registi famosi, ma uno sguardo cinematografico più largo e arricchente che forse aprirà nuove strade».

 

 

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