“SI POSSONO LEGGERE COSE DEL TIPO ‘LA DESTRA HA FINALMENTE TROVATO IL SUO FARO ARTISTICO, IL PIEDE DI PORCO DELL'EGEMONIA CULTURALE’?” – MARCO GIUSTI INFILZA STEFANO CAPPELLINI DI “REPUBBLICA” PER IL SUO GIUDIZIO SUL FILM DI ANGELO DURO CHE “MARCA LO SPIRITO DEI TEMPI, IL VANNACCISMO” – “AIUTO! MA DOVE SIAMO? E PERCHÉ TUTTO QUESTO LIVORE? E’ COME AI TEMPI DEI PRIMI FILM DI CHECCO ZALONE, DURO NON VIENE CAPITO DAI VECCHI, E SOPRATTUTTO DAI VECCHI GIORNALISTI” – PARLA IL REGISTA DEL FILM, GENNARO NUNZIANTE: “IL PROBLEMA È L’ESTREMA SEMPLIFICAZIONE DI TUTTI E DI TUTTO. APPROFONDIRE LE COSE È COMPLICATO, QUINDI SI BUTTA TUTTO IN CACIARA" (E IN POLITICHETTA…) - VIDEO
Marco Giusti per Dagospia
Ma si possono leggere, cito Repubblica e un giornalista di solito attento come Stefano Cappellini, cose del tipo “la destra ha finalmente trovato il suo faro artistico, il piede di porco dell'egemonia culturale”?
O anche “Ci voleva Duro per marcare lo spirito dei tempi, il vannaccismo, la richiesta di poter dire quello che dicono quasi tutti, però sentendosi eroi del libero pensiero”? Aiuto! Ma dove siamo? E perché tutto questo livore?
Come ai tempi dei primi film di Checco Zalone, ricordate? Non è che “Io sono la fine del mondo”, commedia - con morale finale - volutamente sgradevole che lancia la nuova stella di Angelo Duro che sta ottenendo un grande e per molti inaspettato successo, 6 milioni di incasso in due settimane, staccato il più serioso “L’abbaglio” di Roberto Andò con Ficarra e Picone, diretta e co-sceneggiata da Gennaro Nunziante, già regista dei film di Checco Zalone, e quindi dei più grandi successi economici del cinema italiano di ogni tempo, qualcuno non ha capito, o non vuol capire, o non ce la fa proprio a capire.
angelo duro io sono la fine del mondo
Quando il pubblico, soprattutto il pubblico più giovane che riempie le sale del film di Angelo Duro, capisce tutto benissimo? Ne parlo con Gennaro, amico di vecchia data, che sta scrivendo il nuovo film di Checco Zalone.
Una buona notizia. “Il pubblico è intelligente”, mi spiega, “capisce tutto, molto più di quello che si pensi”. Evidentemente altri no. Perché il finale, un finale dove il figlio racconta ai genitori che li porta in Svizzera per farli morire, “Ma secondo loro i genitori saranno consenzienti a morire? E allora…”.
Allora vivranno col figlio che si volta verso il pubblico e per la prima volta “ci sorride”, si libera finalmente della rabbia che aveva contro i genitori, quella rabbia cresciuta dalla mancanza di amore e che ha prodotto in lui intolleranza, contro un disabile come contro una bambina.
Angelo così li porta a vivere con lui non più in una casa ma in un camper che si apre al mondo, che è la chiave di lettura di tutto il film.
Per Gennaro è “un classico romanzo di formazione” dove il protagonista “nasce storto per diventare dritto”. Altrimenti non ci sarebbe un percorso di evoluzione.
Un po’ come “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara, film amato da Gennaro, dove il gesto finale di generosità, che porterà alla morte il protagonista ma salverà i due ragazzi balordi, cambierà totalmente la narrazione e la percezione che avevamo del personaggio. “Non lo vedessero altrimenti daranno del nazista a Keitel”.
angelo duro io sono la fine del mondo
Stiamo vedendo un revenge movie, insomma, dove i veri cattivi sono i genitori che hanno formato un figlio così. “Io vi vengo a restituire quello che mi avete dato”. Per il pubblico dei più giovani, massacrati dentro le case e sul lavoro dalle generazioni dei padri è una liberazione.
L’idea centrale, mi dice Gennaro, è che la famiglia tradizionale con tutto il suo scibile educativo maldestro è morta. E mi cita Giorgio Gaber (“Nelle case non c’è niente di buono appena una porta si chiude dietro a un uomo”). E Marcel Duchamp. “L’uomo da quando è diventato domestico è tornato primitivo”. Così non esistono più i figli tuoi e i figli miei, ma i nostri figli, che chiamano “bro” tutti quelli che riconoscono fratelli. Come esistono “le famiglie”, non la famiglia. Basta con questa arida finzione. E’ quello che raccontano tanti altri film internazionali di successo, come quelli di Hirokazu Kore-eda.
Gennaro, che viene da esperienze politiche giovanili (rigorosamente di estrema sinistra) e da una lunga militanza teatrale e televisiva, non è certo uno sprovveduto.
Ma se questa è la morale del film, che i ragazzi di oggi sentono e capiscono perfettamente, cosa c’entra tutta questa polemica destra-sinistra, Vannacci sì-Vannacci no? “Il problema”, secondo Gennaro, “è l’estrema semplificazione di tutti e di tutto”, a cominciare dai giornalisti.
“Approfondire le cose è complicato, quindi si semplifica, si omette si omologa, si butta tutto in caciara". E si butta tutto in politichetta. Etichettando questo e quello. E cita non citando Vannacci. “La sinistra ha fatto di questo ex militare un euro deputato e chissà cosa ne farà in futuro continuando a parlare di lui. Ma li paga per ricevere tutta questa attenzione?”.
Quando la commedia, da sempre, dovrebbe essere giudicata per altre cose. “Negli anni ’70 c’era una sorveglianza politica, un’attenzione, che non ti faceva dire puttanate. Dovevi argomentare”. Oggi, evidentemente no. E tutti scrivono e parlano di tutti.
Con la stessa facilità di giudizio, si fa passare Angelo Duro per uno sprovveduto, se non un miracolato, come se il suo successo fosse scaturito dal nulla. “Il suo successo è meritato frutto di dieci anni di lavoro”.
Quando ha lasciato “Le jene” ed è andato a fare teatro. “In questi anni ha battuto l’Italia ovunque. 120 mila presenze con lo spettacolo teatrale… si è portato a casa il rispetto del pubblico”.
Questo spiega anche il successo del film, che partito con meno copie rispetto ai suoi diretti avversari, 320 copie contro le oltre 500 di “Diamanti” di Ferzan Ozpetek e “L’abbaglio” di Roberto Andò, e al massimo ne ha avute 410, sta incassando più di tutti. Oltre 6 milioni di euro in due settimane. Massimo Proietti di Vision c’ha creduto da subito e lo ha sostenuto totalmente insieme a Indiana. Eppure Gennaro ci aveva sempre creduto.
“Nel nostro cinema urge un ricambio generazionale. I comici che vediamo al cinema sono tutti adulti, 60-70 anni. Possibile non si riesca ad avere comici più giovani?
Appena fanno un film li uccidono. Abbiamo l’obbligo morale di dargli una mano, aprire a nuovi linguaggi altrimenti tutto cristallizza per diventare cultura geriatrica.
Non puoi massacrarli facendogli girare un film in quattro settimane. Devi dargli sostanza, un film da otto settimane, girato come si deve che può stare sul mercato con dignità, altrimenti il rischio che corri è di farlo sembrare un prolungamento del loro sito web.
Per questo sorride su quel che sente dire del film. “Vomitano sugli altri per assicurarsi un pasto”, condizione umana di tristezza infinita.
Perché non è “la commediuccia dove non devi distrarre il conducente”. E’ un film che cerca un nuovo linguaggio. Esattamente come era difficile per i giovani comici degli anni ’70 emergere ai tempi della vecchia commedia all’italiana.
“Abbiamo una generazione di ragazzi arrabbiati, che non cerca beni materiali, cerca amore, comprensione.
Le generazioni nuove sono migliori di come si pensa. Non gli vendi più la bufala di destra e sinistra, ti ridono in faccia. Però le devi saper guardare, osservare, capire, e soprattutto fargli spazio, lasciarli passare”.
Quindi si identificano nel personaggio di Angelo Duro, che non viene capito dai vecchi e, soprattutto, dai vecchi giornalisti. “Non è colto il fatto che lui nella scena finale fa pace con i suoi, con se stesso e con noi, la sua rabbia è finita e finalmente ci sorride”.
LA DESTRA HA TROVATO IL FARO DELLA SUA EGEMONIA CULTURALE: ANGELO DURO
Stefano Cappellini per la Repubblica - Estratti
Bisognerebbe andare a vedere questo film con Angelo Duro per verificare se, come tutto lascia credere, la destra ha finalmente trovato il suo faro artistico, il piede di porco dell'egemonia culturale, là dove Sangiuliano ha mollato prima di cominciare, con Giuli troppo aristocratico per trovare l’uscita dal labirinto evoliano e Castellitto che ha lasciato il Centro sperimentale di cinematografia prima di restaurare tutto Squitieri.
Bisognerebbe trovare il coraggio di spendere due ore per andare al cinema, al netto del parcheggio e del più lucido problema sollevato da Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno (“Non ho più il tempo di leggere e vedere serie tv”), e aumentare così gli incassi di Io sono la fine del mondo.
Diretto da Gennaro Nunziante, già regista dei più grandi successi cinematografici di Checco Zalone, sta sbigliettando alla grande e portando al cinema un pubblico che s’immagina abbastanza diverso da quello che ha trainato i pochissimi altri film italiani di successo degli ultimi anni. Lì si sospirava per aspiranti suffragette e sartine protofemministe, qui alle sartine sarebbe riservata una battuta tipo: cuciti la bocca, donna.
Dice: ma che parliamo di un film senza averlo visto? Duro, che si vanta di essere antipatico e cattivo, direbbe: e che c’è bisogno di vederlo, un film dove il protagonista importa la sua cifra comica, fissità espressiva e tono monocorde? Uno come Duro, che è un formidabile tritovagliatore di motteggio da bar, delle sue battute direbbe: vista una, l’hai viste tutte.
Un artista alla Duro, che si definisce “politicamente scorretto”, categoria che oggi significa tutto e niente, spazia dalla lotta agli eccessi del woke fino alla rivendicazione di mettere la g nella parola nero, e per capire dove si colloca Duro sappiate che lui non ha paura di dire niente, uno come lui direbbe che distinguere una battuta di Duro dall’altra è come distinguere un giapponese da un cinese. Non li possiamo chiamare musi gialli solo per la cappa culturale che lo impedisce, ma sia chiaro che Duro non si fa impedire nulla.
Uno come Duro, che a Sanremo si mise in mutande convinto di essere a cavallo tra Duchamp e D'Annunzio, e non strappò una risata se non a qualche sedicenne in fase della ribellione, direbbe: te la buco questa cappa. Sempre con quella fissità espressiva che è il suo marchio attoriale, perché se il Clint Eastwood degli spaghetti western aveva solo due espressioni, con cappello e senza, Duro ne ha una sola anche se si mette il cappello.
stefano cappellini foto di bacco
Duro fa battute contro l’ambientalismo, l’educazione, la buona creanza, ringrazia i gay perché così ha più mercato con le donne (“Auguri e figli gay”, è un suo sketch) e non c’è da spiegare la differenza con Zalone - “Gli uomini sessuali/sono gente tale e quale come noi/noi normali/sanno ridere/sanno battere le mani/proprio come noi persone sani” – e Duro batte le mani da dio. Interessante questo fatto che lui e Zalone condividano il regista, il quale si sarà certo accorto che Zalone si travestiva per ridere delle bassezze di tutti, colti e no, impegnati e no, cretini e no, a Duro interessa solo adottarle le bassezze, tutte, indistintamente, e restituirle al pubblico con l’idea di sfidare l’ipocrisia e, già che ci siamo, il mainstream.
Ci voleva Duro per marcare lo spirito dei tempi, il vannaccismo, la richiesta di poter dire quello che dicono quasi tutti, però sentendosi eroi del libero pensiero. Vengono qui in Italia a fare i comodi loro.
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Duro dice alla gente che fa tutto schifo, specie la gente, e i più contenti di sentirselo dire sono quelli che più sarebbero utili a confermare la teoria, ansiosi di trovare nella cattiveria esibizionista di Duro una spiegazione al risentimento e alla frustrazione delle loro vite. Però parliamoci chiaro: vi fa ridere Duro, che altro dovreste chiedervi sulle vostre disgrazie?
angelo duro io sono la fine del mondoangelo duro - io sono la fine del mondoangelo duro - io sono la fine del mondoSTEFANO CAPPELLINI