“L’OPERA È IN CRISI E ANCHE STRAVINSKY OGGI È UNO SPETTACOLO COMICO” – IL MITICO CRITICO MARIO BORTOLOTTO DICE CHE LE CATEGORIE NON HANNO SENSO E METTE ANCHE COLE PORTER E GERSHWIN NELLA “MUSICA BELLA”
Franco Marcoaldi per “La Repubblica”
L’intervistatore di Mario Bortolotto non deve aspettarsi da questo insigne studioso di musica, che tutto ha letto e tutto sa, risposte troppo pensose, solenni: l’esercizio del paradosso, semmai, è il suo particolare modo di procedere. L’uomo ama la conversazione rapida e spiritosa, pratica la sprezzatura e dunque lascia ampio spazio al sottinteso: i giudizi sono sempre apodittici, le critiche taglienti; evidente la sua insofferenza verso la politica, il bovarismo culturale e chi fa la morale.
Assoluto il suo disinteresse verso l’attualità, totem indiscusso del nostro tempo. Autore di libri capitali su Wagner, la Romantik tedesca e la nuova musica del secondo dopoguerra, Bortolotto è altrettanto capace di scovare nei libri (anche di amici) ogni genere di errore; trasformando quella che potrebbe rivelarsi pura pedanteria, in un sublime esercizio di stile. E anche questo vuol dire andare in direzione ostinata e contraria, visto che agli errori, ormai, non bada più nessuno.
Nelle sue opere ci sono idee molto precise su questioni capitali, ma anche un fiorire ininterrotto di amori e idiosincrasie che non devono sottostare a un’estetica monolitica, definita una volta per tutte. E così?
«Almeno in parte, è vero. Finito ogni libro, ti pare di avere chiarito il tuo tragitto. Poi, sai com’è, le voglie sono tante, c’è una mobilità del gusto, ci sono le passioni e le passioni cambiano, come noto. Ma è altrettanto noto che ci sono i ritorni di fiamma».
Non so se si può parlare di ritorni di fiamma, ma la sua opera è attraversata da un continuo corpo a corpo con Adorno. Perché?
«Perché i temi che Adorno ha imposto sono a tutt’oggi ineludibili. La sua può anche sembrare sopraffazione, ma non lo è. Anche se in effetti spinge il linguaggio, sia musicale che letterario, in zone di guerriglia, di assedio permanente ».
Per applicare poi categorie in cui penso lei non sempre si ritrovi. Come quella, citata mille volte, dello Schoenberg “progressista” e dello Stravinsky “reazionario”…
«Soprassediamo, è meglio: una fisima dell’Adorno pensatore che immaginava il mondo diviso in due campi sempre pronti a duellare. Categorie
estetiche prive di valore e oltretutto nemmeno riconducibili al suo gusto personale».
Lei definisce la politica “un fastidio universale”. È per via dei guasti prodotti interferendo con l’arte? O è la politica in sé che la disgusta?
«L’uno e l’altro, direi. D’altronde, piaccia o meno, da tempo immemorabile è invalsa tra gli esseri umani questa strana usanza di comportarsi politicamente: e allora, mica possiamo prendere Napoleone, Bismarck e Mussolini e toglierli di mezzo. Ciò detto, a me la politica fa orrore: sia per il modo in cui viene esercitata, sia pensando alle persone che abitualmente la esercitano».
Leggenda vuole che lei non segua l’attualità. Sa almeno chi è il presidente del Consiglio?
«Dunque… sì. È quel giovanotto di Firenze che con il passare dei mesi è diventato piuttosto paffutello. Davvero notevole la sua trasformazione: indice di un agio economico crescente, direi».
E invece chi è il ministro degli Esteri?
«Addirittura il ministro degli Esteri, mi chiede. Non esageriamo. Mi interessano di più certi politici trasformati in figure allegoriche. Prenda il “famigerato” Berlusconi. Dovrebbe essere gemente in un carcere e invece è ancora lì, pimpante, felice come una pasqua: con parenti vecchi e ragazze nuove. Chiunque, al suo posto, sarebbe da tempo stramazzato al suolo. Bisogna riconoscergli una capacità di resistenza non comune».
In passato lei ha tracciato l’elogio dei festival provinciali, capaci di uscire dall’incubo del repertorio. Vedi l’Arena di Verona — «O il Nabucco ( con coro bissato) o i mangiatori di cocomero si eclissano».
renzi madia delrio boschi picierno
«È la pura verità. L’opera è in una crisi totale, con prospettive davvero poco lusinghiere. Per contro, i giovani compositori sono eternamente tentati di continuare l’opera dei padri e avere tutti i vantaggi del caso, nient’affatto piccoli: a fronte di costi incredibili, non meno incredibili introiti. La forza di attrazione, quindi, è a dir poco magnetica. Che poi non si riesca mai, o quasi mai, a produrre qualcosa di significativo, è un altro paio di maniche. Qualche settimana fa ho risentito alla Fenice La carriera di un libertino di Stravinsky, che è del ‘51. Siamo di fronte a uno dei massimi compositori del Novecento e l’opera fa ancora una certa figura. Però…»
Però?
«Beh, il ridicolo salta fuori di continuo. Evidentemente certe forme espressive a un certo punto si esauriscono. Che direbbe lei se oggi qualcuno decidesse di scrivere un poema eroico, o cavalleresco? Se uno volesse rifare l’Orlando furioso adattato al nostro tempo? L’esito sarebbe grottesco. Stravinsky ci offre cose che l’opera tradizionale non potrebbe più darci, ma in compenso paga prezzi altissimi. La manipolazione introduce elementi involontariamente comici in un contesto che vorrebbe essere tragico, o quantomeno drammatico.
STRAVINSKY COCTEAU CON PABLO E OLGA PICASSO
Esemplare, in tal senso, l’incontro tra il libertino, finito in manicomio, e una sua antica fidanzata con la quale non riesce a intrattenere un discorso minimamente sensato. Lei parla un linguaggio estatico, religioso; lui inanella baggianate mondane. Del resto, come si fa a pensare che la figura del libertino possa risultare ancora così significativa? Il poveretto si comporta come qualunque ragazzo di questo mondo e non si capisce proprio perché debba essere giudicato come un malvagio o addirittura un matto».
Da qualche parte lei ha scritto che la distinzione tra musica colta e leggera non è affatto chiara. Come si è imposta?
«Mistero della fede. Si dovrebbe scrivere un grande capitolo di estetica a riguardo, ma nessuno si è mai sognato di farlo. Così come non è affatto chiara la ripartizione dei generi letterari, altrettanto accade in musica. Roberto Longhi, quando scoprì Mina, diventò pazzo e imparò tutte le sue canzoni a memoria. Io sono con lui, naturalmente. Basterebbe tornare alla vecchia idea della musica bella. E nella musica bella non vogliamo metterci Cole Porter, Gershwin, Edith Piaf? Tutto ciò che suscita interesse o stimola quel tanto in più di piacere dovrebbe essere accolto a braccia aperte. Come del resto avviene».
Forse, come lei scrive spiritosamente, l’unica vera differenza è che l’esecuzione della musica classica viene accompagnata dal programma di sala…
«Certo, è il modo per nobilitare la serata. Non la musica, beninteso, ma l’avvenimento in sé. Gli amanti della musica leggera non avvertono alcun bisogno di particolari riflessioni. A loro basta l’ascolto».
Fase seconda è un grande affresco sulla “nuova musica” del secondo dopoguerra. Oggi, quale di quei compositori ascolta ancora volentieri?
«Donatoni, Clementi, Boulez. E senz’altro Berio, che ha scritto cose molto brillanti, piene di estro e trovate. Certo, non lo ascolterei tutte le sere. Ma nemmeno tutte le sere leggo il greco. Anche se ogni tanto ripasso: Omero, ad esempio».