SCALFARI TI AMO (E TI ODIO) - NEL LIBRO DI PANSA, IL FONDATORE DOMINA OGNI PAGINA, E SOPRATTUTTO IL CUORE DELL’AUTORE - “QUEL PRODIGIO OGGI È FINITO”, ANNIENTATO DALLA FILOSOFIA DEL GIORNALE-PARTITO IN LOTTA CONTRO I NEMICI CHE, VIA VIA, “BARBAPAPÀ” INDICAVA: PER PRIMO CRAXI E, INFINE, BERLUSCONI - MA A PANSA SFUGGE IL RUOLO DI DE MITA E DELLA SINISTRA DC SULLA LEGGE MAMMÌ BALUARDO ALL’INVASIONE DI BERLUSCONI NEL MONDO DEI GIORNALI …

DAGOREPORT


1. NEL LIBRO DI PANSA, SCALFARI DOMINA OGNI PAGINA, E SOPRATTUTTO IL CUORE DELL'AUTORE

Protagonista fin dal titolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La Repubblica di Barbapapà", Eugenio Scalfari domina ogni pagina e soprattutto il cuore dell'autore.

Come tra padri e figli, la differenza d'età non conta e non contano nemmeno gli anni di lontananza: da parecchio tempo, rivela, si sono "persi di vista". E così Pansa, che ha 77 anni, conserva per Scalfari, che sta per compierne 89, lo stesso affetto, entusiasta e devoto, che lo sovrastava quando ne avevano 30 di meno.

Anche nelle pagine in cui non compare, nella storia della vita professionale di Pansa prima del suo ingresso a Repubblica, Scalfari è presente, in una specie di annunciazione continua.

Pansa ha avuto grandi direttori, come Giulio De Benedetti e Alberto Ronchey alla "Stampa", come Piero Ottone e Franco Di Bella al "Corriere della Sera" o Claudio Rinaldi a "Panorama" e all' "Espresso", dove ha lavorato anche con Giovanni Valentini (curiosamente non nomina il suo attuale direttore, Maurizio Belpietro, a "Libero", come fosse una variabile accidentale della sua vita professionale). Ma Scalfari, e non serve certo Pansa a scoprirlo, è un'altra cosa.

Scalfari è il "Costruttore", quello che ha fatto, "con il suo gemello Caracciolo", "Repubblica" dal nulla. E l'ha fatta grande: "Un'impresa titanica".

"La sorte gli ha permesso di conservare il carattere che ha sempre messo in mostra. Un primo della classe geniale, testardo, autoritario, con un'autostima enorme, convinto di avere sempre ragione al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore, e sbaglia una previsione, come è accaduto in più di un caso, rimuove tutto senza spiegare nulla.

La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando sulla smemoratezza di chi lo ascolta pontificare in tv con lentezza regale o legge il suo vangelo domenicale su Repubblica".

Però, avverte Pansa, "quel prodigio oggi è finito" e lo annuncia fin dal primo capitolo, a pagina 11.


"Però quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale-caserma che pervade la "Repubblica" di questi ultimi anni. Diventata una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Le opinioni pubblicate sono tutte uguali e dettate ai lettori senza mai essere messe in discussione. Un errore al quale Scalfari non soltanto non si è opposto, ma che ha contribuito a provocare.

Il risultato è una falange compatta e guerrigliera: il giornale-partito. Questa accusa viene rivolta da anni a "Repubblica". Accadeva già con la direzione di Scalfari e accade oggi sotto la regia di Mauro. Di questa etichetta a Eugenio non è mai importato nulla. Anzi l'ha rivendicata in un editoriale dell'agosto 2007 nel quale spiegava che le grandi testate sono tali proprio perché sposano una causa politica. Era accaduto così anche nei primi anni del Novecento con il "Corriere della Sera" di Luigi Albertini.

La domanda è se nella temperie attuale, dove nessuno è più certo di nulla, un giornale-partito sia utile al pubblico al quale si rivolge e, più in generale, alla società italiana. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche "Repubblica", la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell'editore. Non di Scalfari.

Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell'incertezza quando deve spiegare chi siano i lettori di "Repubblica". Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi".


Il libro è una storia di Repubblica, ma anche di un pezzo di giornalismo italiano, senza pretese di cura maniacale del dettaglio o di organicità, è il racconto del principe dei cronisti italiani, dove la vicenda personale di Pansa si intreccia con quella del giornale, del giornalismo e anche dell'Italia contemporanea. Ma sempre da testimone oculare: ove non ha visto con i suoi occhi o sentito con le sue orecchie non riporta, e forse per questo la tormentata vicenda della vendita a Rizzoli da parte dei tre soci del Corriere, Crespi, Agnelli, Moratti, è piuttosto sintetica.

Il racconto è fatto da un cronista che riesce a uscire dal particolare dei singoli episodi e ricucendoli ne trae un grande affresco. Qui forse è la differenza tra Pansa, che è di Casale Monferrato, e Mauro, che è di Dronero (Cuneo). Mauro non ha fatto il salto da grande cronista a storico, ma è diventato direttore e questo è il cruccio latente che serpeggia nel libro.

C'è poi un terzo grande del giornalismo italiano, Giorgio Bocca, di Cuneo, e questo passo dà un'idea dello spirito piemontese che domina.


"Un giorno Bocca mi disse, con il suo stile ruvido: "Pansa, non capisci un cazzo. Scalfari e De Mita sono due terroni, pronti a darsi un a mano!". Gli replicai: "Giorgio, tu dei cuneese e io monferrino, eppure non andiamo d'accordo quasi su niente!". Lui alzò le spalle: "Noi piemontesi siamo diversi dai meridionali. La nostra specialità è litigare sempre".


Scalfari no, lui non è piemontese, anche se ha sposato una piemontese, Simonetta, figlia di Giulio De Benedetti, però, dal punto di vista professionale, è le due cose assieme: grande scrittore e grande direttore. E anche grande stratega editoriale.

Ci fu qualcosa di messianico nel primo incontro di Pansa con Scalfari:


«Non verresti a lavorare con me a "Repubblica"?» mi domandò Eugenio Scalfari.
La mia risposta fu senza esitazioni: «Ti ringrazio per l'invito, ma devo dirti di no».
«Perché no?» chiese ancora Eugenio.
Questa seconda domanda mi creò un po' d'imbarazzo. Avrei dovuto ribattergli con una spiegazione che non avevo voglia di offrire. E mi nascosi dicendo: «Ho un patto di lealtà con Piero Ottone. Gli ho promesso che resterò con lui al "Corriere della Sera". Me ne andrò soltanto quando Piero si dimetterà».
Era il 2 giugno 1975".

"Mi trovavo di fronte al padreterno di via Po, la storica sede dell'"Espresso" a Roma. Scalfari aveva 51 anni, undici più di me. E mi fece un'impressione eccellente, per usare un aggettivo che per Eugenio riassumeva il massimo del giudizio positivo. Ieratico, fervido, sicuro di sé, assolutamente tranquillo nella riuscita dell'impresa che stava progettando.

Chissà perché, mi obbligò a pensare a un nuovo Cristoforo Colombo impegnato ad arruolare l'equipaggio per una caravella, anziché per tre. Purtroppo a non convincermi era proprio lui, il capitano di un altro viaggio verso l'ignoto.

C'erano troppi lati di Scalfari che suscitavano la mia diffidenza. Nel 1968 il Partito socialista, portandolo a Montecitorio, lo aveva salvato dai guai giudiziari legati all'inchiesta dell'"Espresso" sul presunto tentativo di colpo di Stato del Sifar, il servizio segreto delle forze armate. Per un caso voluto dalla sorte, quella era stata la prima legislatura di un altro deputato socialista che in seguito sarebbe diventato il bersaglio di una violenta guerra politica di Scalfari: Bettino Craxi.

Bettino aveva dieci anni meno di Eugenio. E i due, eletti entrambi nella circoscrizione Milano-Pavia, non erano fatti per andare d'accordo. Nella minuziosa biografia di Massimo Pini dedicata al leader socialista e pubblicata da Mondadori, si legge un giudizio asprigno di Craxi sullo Scalfari conosciuto in campagna elettorale: «Eugenio è un geniaccio con un carattere fragile, instabile. Se oltre ai salotti avesse frequentato anche qualche sezione di partito, se avesse alternato i colloqui con esponenti della finanza a qualche incontro con gli operai, be', direi che non gli avrebbe fatto male»

Da deputato milanese, Scalfari si era gettato tutto a un sinistra, diventando un sostenitore del Movimento studentesco che dopo il Sessantotto dominava la piazza. Le assemblee alla Statale lo vedevano spesso tra i vip che assistevano a quei riti.

C'è una suggestiva fotografia scattata da Massimo Vitali che ritrae Eugenio in un'assemblea nell'aula magna dell'università. E in piedi e sta fumando. Accanto a lui c'è la sua spalla abituale: Giuseppe Turani, detto Peppino, piccoletto e occhialino, giornalista esperto di questioni economiche.

La fotografia risale al gennaio 1970, forse scattata nel pomeriggio che vidi Eugenio per la prima volta. Durante un corteo del Movimento che marciava "contro la repressione" messa in atto dal secondo governo del democristiano Mariano Rumor, a danno degli studenti che sognavano la rivoluzione. Era soltanto una mossa di pura propaganda, poiché il pio Rumor non appariva assolutamente in grado di reprimere alcunché.

Eugenio, forse in cerca di popolarità, era tra i vip che guidavano il corteo, mentre io, da inviato a Milano della "Stampa" di Alberto Ronchey, mi ero sistemato sul fronte opposto, quello della polizia. Non impugnavo un manganello, ma soltanto la biro e un taccuino. E mi limitavo a osservare quanto poteva accadere, accucciato alle spalle del vicequestore Luigi Vittoria, un funzionario per niente bellicoso, incaricato di ordinare la carica dopo aver indossato la fascia tricolore".

Di quel primo contatto visivo non rammento quasi nulla. Non ricordo neppure se la carica ci fu. A restarmi impressa fu soltanto la figura di Eugenio. Era bello, aitante, ancora senza barba e si difendeva dal freddo con un magnifico tre quarti di montone".


Un anno dopo ci fu l'incontro con Caracciolo, che non riuscì, al momento, a convincere Pansa, ma si rivelò profeta, sia per Pansa sia per Repubblica:


"Quel giorno d'estate del 1976, Caracciolo mi accolse con calda cordialità, pregandomi di accompagnarlo in una breve passeggiata nei dintorni della villa. Durante la lenta camminata, mi domandò di raccontargli del "Corriere" e di Ottone.
Gli regalai qualche banalità che di certo doveva conoscere meglio di me: le difficoltà finanziarie di Angelo Rizzoli junior, nostro editore da un paio d'anni, il sindacalismo esasperato di una parte della redazione, l'abilità di Ottone nel non lasciarsi imprigionare troppo dai tanti ostacoli che incontrava ogni giorno.

Il Principe osservò: «Piero è davvero bravo. L'unico che lo batte è Eugenio. Prima o poi, finiranno con il lavorare assieme».
Poi volle sapere in che modo ero riuscito a strappare a Berlinguer quelle battute sul Patto di Varsavia e sulla Nato. Mentre nell'intervista a Fausto De Luca di "Repubblica" il segretario del Pci non aveva detto nulla di memorabile. Quindi aggiunse: «Eugenio si è incazzato a morte perché Berlinguer ha scelto di parlare schietto al "Corriere" invece che a "Repubblica". E immagina congiure e trame a non finire, ai suoi danni e per avversione al nostro giornale appena nato...».

Mi misi a ridere e risposi: «E inutile che Scalfari, e forse anche tu, cerchiate di catturare le mosche con le chiappe. Non c'è stato alcun complotto e non è intervenuto nessun potere segreto. Avevo appena concluso la mia inchiesta sul Pci. E tanto Ottone che io pensammo che si doveva intervistare il segretario comunista.

Insieme abbiamo steso le domande e io le ho portate alla governante di Berlinguer, l'occhiuto Tonino Tato. Dopo un giorno, Tato mi ha chiamato: Enrico ha deciso di dare l'intervista al "Corriere". E vuole che sia tu a farla, per rimediare alle balle che hai scritto nei quattro interminabili articoli sul partito... Tutto qui».

Caracciolo osservò: «Me la racconti troppo semplice. E non ti credo!». Alzai le spalle: «È andata esattamente così. Non so che altro dirti. Ma dovresti rammentare che la mia intervista a Berlinguer è uscita qualche giorno prima delle elezioni politiche di questo giugno. Il segretario del Pci aveva bisogno di dire certe cose a un pubblico più vasto di quello del vostro giornale. E ha scelto il "Corriere". Eugenio non perda tempo a incavolarsi!».

«Già, parliamo dei lettori di "Repubblica"» mi propose Caracciolo. «Oggi sono ancora pochi, ma presto cresceranno. Se è questo il motivo che un anno fa ti ha spinto a rifiutare l'invito di Eugenio, hai sbagliato...»

Interruppi Caracciolo: «Ho detto di no per altre ragioni» e mi decisi a spiegargli per bene l'insieme di dubbi e dissensi che mi avevano fermato. Lui mi lasciò parlare a lungo, poi si limitò a osservare: «Hai ragione, quel manifesto contro Calabresi è stata una vera carognata. Ti rammento che, a differenza di Eugenio, io mi sono ben guardato dal firmarlo. Ma non potevo né volevo bloccare l'iniziativa dell'"Espresso". Ho sempre pensato che gli editori non debbono mai sovrapporsi ai direttori. O li lasciano fare oppure li cacciano su due piedi».

Comunque, il Principe se ne infischiava dei miei fastidi nei riguardi di Scalfari, della Cederna e dell'"Espresso". Adesso gli premeva soltanto "Repubblica". Mi disse: «Un giornalista come te deve lavorare con Eugenio. Lascia perdere i quotidiani dove sei stato fino a oggi. Loro appartengono al passato, mentre noi siamo il futuro. Ma per affermarci abbiamo bisogno di gente con una buona esperienza professionale. Tu fai al caso nostro. Il tuo lavoro da inviato verrà riconosciuto senza avarizia. E avrai un compenso più alto di quello che ti passano Rizzoli e Ottone.

«Noi siamo il giornale giusto per te» continuò Caracciolo. «Dopo le prime fatali difficoltà, "Repubblica" si assesterà e diventerà sempre più forte. Per tanti motivi, ma soprattutto per due. Ha un direttore unico in Italia, il più bravo in assoluto: Eugenio. E un editore fortunato: io. Forse tu non lo sai, ma la fortuna mi è stata sempre amica. Con i giornali e con le donne.»

Gli replicai ridendo: «Mia nonna Caterina avrebbe detto: fortuna in amore, disgrazia negli affari. O viceversa».
Caracciolo alzò le spalle: «Tua nonna si sbagliava. I mia storia personale la smentisce. Dammi retta: vieni con noi a "Repubblica". Diventerà il primo giornale italiano. E tu farai un'esperienza unica. Persino litigare con Eugenio risulterà appassionante».

Un simpatico figlio di buona donna, il Principe. E un padrone che sapeva essere molto convincente. Infatti, l'anno successivo mi arruolai nella banda di Scalfari. Ma prima mi ero trovato immerso in altre faccende professionali. Il prologo necessario al mio arrivo in quel giornale rifiutato per due volte".

La storia di Repubblica si sviluppa per più di 300 pagine, con la tecnica del grande racconto, inclusi flash back e deviazioni laterali. Vi entrano personaggi che appartengono al presente, come Ezio Mauro, e al passato dell'editoria italiana: l'incontro con Ferdinando Perrone, comproprietario del "Messaggero", che annuncia a Pansa la vendita della propria quota a Edilio Rusconi (alla fine comprerà tutto la Montedison e poi Caltagirone); i due colloqui con Berlusconi, il primo una reprimenda il secondo una offerta di lavoro.

Poi l'assassinio di Walter Tobagi e la scoperta che per un puro caso non era toccato proprio a lui, Pansa, di finire sotto il piombo di un gruppetto di ragazzi di buona famiglia della sinistra intellettuale milanese, col pentimento già in tasca; Montanelli, al quale non perdona di essere diventato "un eroe per la sinistra che lo aveva sempre odiato" per essersi messo contro Berlusconi.

Una pagina è dedicata a Marco Benedetto, che all'epoca del ritorno di Pansa a "Repubblica" dopo dieci anni come condirettore dell' "Espresso", era amministratore delegato del Gruppo editoriale.

Scalfari domina il racconto: i suoi rapporti con Craxi, senza particolari rivelazioni, con Pertini, con De Mita, con i comunisti.

Dal racconto del rapporto di Repubblica con De Mita manca un pezzo importante, che forse sfuggì a Pansa nella concitazione della guerra di Segrate. Furono De Mita e i suoi della sinistra democristiana a forzare la mano a Andreotti, imponendo la legge Mammì sui rapporti tra tv e giornali che, per quanto edulcorata negli anni tra Corte costituzionale e nuove leggi, ancora è baluardo all'invasione di Berlusconi nel mondo dei giornali.

Per ottenere questo si dimisero da ministro vari esponenti democristiani, cosa che per un politico è dolorosa assai. E uno di loro, Sergio Mattarella, finì sulla lista nera di Berlusconi al punto che, quasi vent'anni dopo, mise il veto alla sua nomina a vice presidente del Csm, tanto gli bruciava ancora.

Sui rapporti con i comunisti ci sono molte, avvincenti, pagine sul complesso atteggiamento del Pci e delle sue mutazioni nei confronti di "Repubblica" all'epoca di Scalfari, prima della mutazione in giornale fiancheggiatore. Ma la pagina più divertente, a proposito dei comunisti, non riguarda Scalfari, ma Berlusconi: è il racconto che Pansa fa, come testimone oculare, della visita del segretario del Pci, Enrico Berlinguer, a Canale 5, host Silvio Berlusconi:

La storia di "Repubblica" è completa, non manca la vicenda nota come a Guerra di Segrate, iniziata nell'aprile dell'89 con la vendita dell'Espresso, che includeva mezza Repubblica alla Mondadori in cui dominava Carlo De Benedetti e conclusasi due anni dopo, con la divisione fra la Mondadori dominata da Berlusconi e il grande Espresso dominato da De Benedetti, in cui era rifluita Repubblica, ma tutta intera.

La cronaca di questi due anni è avvincente, fedele. Qualcuno più addentro può rilevare qualche lacuna, dovuta al ruolo di Pansa in quei momenti, che era di puro testimone. Ma il ritmo c'è e si legge come fossero cose di ieri.

Qualcuno si poteva aspettare da Pansa qualche domanda di più, ma sono dettagli di un grande affresco. Pansa accetta la verità ufficiale: Caracciolo, Scalfari e i loro amici vendono alla Mondadori il controllo dell'Espresso, che, come detto, ha in pancia il 50% di Repubblica.

La Mondadori sembra destinata a finire sotto il controllo di De Benedetti, che ha firmato un patto d'acciaio (solo la corruzione per cui ci sono stati processi e condanne poteva come avvenne, fonderlo) con Cristina Mondadori vedova Formenton. Improvvisamente Berlusconi spariglia e si impadronisce di tutto e solo il colpo di genio di Caracciolo (più qualche colpo di giustizia giusta al Tribunale di Milano) salva la situazione mettendo in mezzo Peppino Ciarrapico e Andreotti.

Andreotti, come spiega lui stesso a Pansa, non vede di buon occhio tutto quel ben di Dio giornalistico in mano a uno, De Benedetti, che già si comporta come un fiancheggiatore dei comunisti, ma non può nemmeno vedere con gioia la stessa concentrazione di un avversario che lui odia almeno altrettanto, Bettino Craxi, Di qui la spartizione, forzata sulla testa di Berlusconi con la minaccia di togliergli le concessioni tv.

Nessuno ha mai ricordato abbastanza la condizione di illegalità in cui ha operato Berlusconi in tutti questi anni, nel silenzio decennale della Corte costituzionale, zitta sempre fino a quando il male è stato sanato infine dalla Legge Gasparri e soprattutto dal completamento del digitale terrestre.

 

GIAMPAOLO PANSA LA REPUBBLICA DI BARBAPAPAgiampaolo pansa - copyright Pizzigiampaolo pansa - copyright Pizzicisnetto enrico-giampaolo angelucci alessandro pansa - copyright PizziGIAMPAOLO PANSA SECONDO ETTORE VIOLAgiampaolo pansa 001ca21 giampaolo pansaGiampaolo Pansaantonio galdo Giampaolo pansa cisnetto - copyright PizziEugenio Scalfari Eugenio Scalfari EZIO MAURO ROBERTO SAVIANO EUGENIO SCALFARI EUGENIO SCALFARI EZIO MAURO craxi scalfariscalfari caracciolo formeton GetContent asp jpegscalfari caracciolo caracciolo_ciarrapicodebenedetti, caracciolo, ciarrapicoEUGENIO SCALFARI E CARLO DE BENEDETTI EUGENIO SCALFARI CARLO DE BENEDETTI SILVIO BERLUSCONI CARLO DE BENEDETTICARLO DE BENEDETTI ANNI NOVANTA CARLO DE BENEDETTI CON LA MOGLIE

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