PAZZI PER ‘’MAD MEN’’ – OGGI I GRANDI ROMANZIERI, I NUOVI MAUPASSANT E TOLSTOI, SONO GLI AUTORI DELLE SERIE TV – RITRATTO DI MATTHEW WEINER, L'AUTORE DEI ‘’SOPRANOS’’ CHE CON “MAD MEN” USA IL MONDO DELLA PUBBLICITÀ PER SCANDAGLIARE L'ANIMO UMANO COME RARAMENTE CINEMA E ROMANZO SANNO OGGI FARE, ESPRESSIONE DEL CINISMO CHE SI FA LETTERATURA, IMMAGINE CHE DIVENTA MALIZIOSA INTELLIGENZA…

1 - IL POETA MODERNO DEL (CINICO) SOGNO AMERICANO VENDUTO DAI PUBBLICITARI NEGLI ANNI SESSANTA...
Aldo Grasso e Cecilia Penati per "la Lettura - Corriere della Sera"

Difficile trovare parole appropriate per tessere l'elogio di Matthew Weiner, l'autore di Mad Men, una serie di rara raffinatezza che usa il mondo della pubblicità per scandagliare l'animo umano come raramente cinema e romanzo sanno oggi fare, espressione del cinismo che si fa letteratura, governato da una cauta, maliziosa intelligenza.

Le biografie raccontano che è nato nel 1965 a Baltimora, da una famiglia benestante ebrea, padre medico, madre avvocatessa. Poi insieme ai genitori si sposta a Los Angeles, segue un percorso di studi tradizionale, molto impostato su quelle che gli anglosassoni chiamano humanities, letteratura, storia, filosofia.

Dopo la laurea alla UCS e i primi guadagni ottenuti partecipando come concorrente al celebre quiz tv Jeopardy, c'è subito il piccolo schermo, l'ingresso nella writer's room, l'officina - simbolica prima che fisica - dove gli sceneggiatori scrivono le serie televisive: Weiner si fa le ossa con il più «quotidiano» dei generi, la sit-com. Parte dalle seconde linee, alla metà degli anni Novanta, come autore di battute per Party Girl, una commedia al femminile che però non ha fortuna e viene presto cancellata.

In quel periodo è accreditato come sceneggiatore e produttore in altre sit-com poco conosciute in Italia, come The Naked Truth con Thea Leoni (passata da noi in sordina nell'allora Tele+), Baby Blues e Andy Richter Controls the Universe, tutta scritta intorno al protagonista Andy Richter, a lungo spalla comica del Late Show e degli altri programmi di Conan O'Brien.

La più famosa delle sit-com che scrive e produce è forse Becker, in onda su CBS dal 1998 al 2004, impersonata da Ted Danson (il George di Bored to Death) nei panni di un dottore misantropo ma molto benvoluto dai suoi pazienti. Curioso come dopo aver a lungo lavorato sulla comicità, la vera svolta professionale arrivi per lui da tutt'altro versante, dai toni riflessivi e profondi del drama. Mentre è al lavoro su Becker, Weiner inizia a studiare gli anni Sessanta come terreno di coltura di molte delle tendenze simboliche e materiali della società moderna, tra sviluppo economico ed emancipazione sociale e personale.

Ma gli anni Sessanta lo interessano soprattutto come il decennio che incrocia la storia privata della sua famiglia, il matrimonio dei suoi genitori, le radici comuni della sua generazione.

Ha dichiarato in molte interviste: «Da quando ero nello staff di Becker ho iniziato a dedicarmi anche a un altro progetto, che era diventato la mia amante notturna. Avevo quest'idea - non so dire da dove mi fosse venuta, non so neanche come abbia preso progressivamente forma nella mia mente - di costruire uno show ambientato negli anni Sessanta. Quello che volevo davvero fare era scrivere una storia su qualcuno che fosse come me, che avesse trentacinque anni, possedesse tutto quello che poteva desiderare e fosse molto, molto infelice».

Così scrive la puntata pilota di una serie ambientata nella New York dei primi anni Sessanta, usando il mondo della pubblicità per mostrare una società sospesa fra sogno e disprezzo, fra «persuasori occulti» e il sacrosanto bisogno di lasciarsi persuadere. Lo script arriva nelle mani di David Chase, lo showrunner di una delle serie che ha più influenzato i destini del telefilm americano, che ha restituito alla serialità televisiva lo statuto di un oggetto meritevole di attenzione critica oltre che di un investimento passionale, I Soprano. Del progetto non se ne fa nulla, ma Chase è talmente impressionato che chiama Weiner ad affiancarlo ai Soprano, del canale via cavo HBO.

Weiner lavora come sceneggiatore e produttore per la quinta e la sesta stagione della saga della famiglia di mafiosi italoamericani, forse le più buie, cupe e malinconiche della serie. L'epopea di Tony Soprano è anche il più grande affresco su una delle grandi malattie della modernità, la depressione.

Un boss mafioso, l'ultimo erede delle famiglie che spadroneggiano nel New Jersey, diventa un caso clinico, un fragile depresso che ogni settimana deve incontrare una psicoterapeuta. Quando Weiner approda alla serie, l'impero si sta sfaldando, i padri storici rincoglioniscono in qualche casa di riposo, la polizia ha in mano elementi per incastrare la «famiglia», altre bande si fanno avanti...

Chi conosce il genio di David Chase sa che il compito di tutti gli autori che lavorano con lui è in fondo solo quello di seguire il suo progetto, di assecondare il suo disegno narrativo sui personaggi e i loro destini. Weiner ricorda il lavoro ai Soprano anche come un periodo molto frustrante: come ha raccontato lo stesso Chase al «New York Times», il rapporto tra i due è stato a tratti molto turbolento e conflittuale.

A Weiner venivano assegnate le storyline più difficili e problematiche, le più eccentriche rispetto all'evoluzione della trama principale. Come quella volta che Chase lo incarica di lavorare alla storia di Christopher Moltisanti, il nipote di Tony Soprano, che in viaggio per Los Angeles scopre l'esistenza delle luxury lounge, gli spazi promozionali dove i vip americani vengono ricoperti di doni dalle più prestigiose marche. Weiner se la cava egregiamente e il tutto finisce con Lauren Bacall colpita e rapinata della sua ricca «goodie bag».

Poi I Soprano finiscono, con quella conclusione ambigua e volutamente irrisolta. Dopo sette anni dalla prima scrittura, Weiner ritorna sul pilota della serie sugli anni Sessanta: il piccolo canale via cavo AMC ha deciso di avviare un nuovo ciclo di produzioni originali per la tv. Serve un'idea che sia originale e, al tempo stesso, abbia un'alta qualità di scrittura, per conquistare il pubblico esigente della televisione via cavo: Mad Men debutta nel 2007, la domenica sera, ed è arrivata oggi alla sua quinta stagione (ma in Italia siamo fermi alla quarta), nonostante i recenti dissapori tra Weiner e il canale AMC.

I suoi protagonisti sono i creativi di Madison Avenue a New York, il centro nevralgico dell'estro pubblicitario dell'epoca: determinati fino al cinismo, ambiziosi, politicamente scorretti, hanno dato forma all'immaginario dell'«American Dream» così come lo conosciamo ancora oggi. Mad Men parla dei pubblicitari, della loro vita privata e di quella professionale negli uffici dell'immaginaria agenzia Sterling & Cooper: colpi bassi, orari lavorativi senza limiti, sesso, droga e rock'n'roll. Il loro motto? «Non importa chi sei, cosa vuoi o quali siano i tuoi valori. L'unica cosa che conta è come ti vendi».

Il protagonista indiscusso della serie è Don Draper (interpretato da Jon Hamm), creativo e vincente, spietato ma con stile, ambiguo quanto basta, cinico ma di cuore. Sempre circondato dalle donne più belle, ha una fila di camicie bianche perfettamente inamidate nel primo cassetto della scrivania, e mente - a se stesso e agli altri - con la stessa facilità con cui dà fondo al pacchetto di immancabili sigarette. Nel susseguirsi delle stagioni abbiamo assistito alla sua discesa agli inferi, a quella caduta libera anticipata dalle linee stilizzate della sigla della serie, con il successo professionale sempre affiancato al tormento privato.

Accanto a lui c'è la (ex) moglie Betty, prigioniera della sua bellezza e della sua tristezza. C'è la pupilla Peggy Olsen, plasmata dall'ego di Don. Ci sono soci dell'agenzia, lo strambo Bert Cooper, Roger Sterling, il compassato Lane Price e il giovane e ambizioso account Pete Campbell, pronto a tradire chiunque per la carriera. La bellissima rossa Joan Holloway, una donna che vive secondo le sue regole.

Sullo sfondo, l'età kennediana, il Vietnam, i trionfi dei Beatles, l'emancipazione femminile, la fine della segregazione razziale, i brand più celebri del sogno americano, da Lucky Strike all'American Airlines, e il dilagare nei salotti americani del nuovo focolare elettronico, il televisore.

La serie divide, chi ne capisce la rarefatta perfezione la ama, gli altri la trovano lenta, noiosa, senza trama. Per comprenderne la rilevanza basta però pensare che è finita a pochi mesi di distanza sulla copertina di «Rolling Stone America» e dei prestigiosi «Cahiers du cinéma», che per la prima volta hanno degnato d'attenzione la televisione.

Matthew Weiner è un perfezionista quasi maniacale, scrive gli episodi, lavora come produttore esecutivo, si occupa anche di supervisionare dettagli minuti come i costumi e l'arredamento del set, perché Mad Men deve essere anche un ritratto cristallino dell'America degli anni Sessanta, ogni oggetto al suo posto, ogni abito cucito perfettamente addosso ai personaggi.

Non ama gli spoiler (ha gelato una giornalista del «New York Times» che si era permessa di anticipare alcuni temi di una stagione inedita), filma rigorosamente solo su pellicola. A differenza di J.J. Abrams, il suo essere autore passa necessariamente attraverso l'esaltazione della scrittura, la capacità di rendere il ritmo, il timbro del parlato, di raccontare i fatti, anche i più insignificanti, nella loro ordinaria sequenza, con la sublime capacità di elevare un dettaglio ad allegoria.

Ogni episodio è una piccola miniera di citazioni da appuntarsi. Folgorante e definitiva quella con cui Don spiega nel «pilota» della serie che cos'è la pubblicità: «La pubblicità è basata su una sola cosa, la felicità. E sai cos'è la felicità? È il profumo di una macchina nuova. È la libertà dalla paura. È un'insegna al lato della strada che ti grida rassicurante che qualsiasi cosa tu stia facendo va bene. Che tu vai bene».

2 "A VOLTE IL PUBBLICO VUOLE UNO SPECCHIO. ALTRE, SOLO FUGGIRE"
Stralcio di una intervista a Matthew Weiner pubblicata da "Link Idee per la televisione"

Mi sono ritrovato a 35 anni, con tre figli, felicemente sposato, a fare un lavoro splendido e ben pagato, ma con un senso di profonda tristezza e frustrazione. Mi chiedevo: "e' tutto qui quello che posso fare in campo televisivo?". Così, a quel punto ho voluto mettere in discussione il ruolo maschile, indagarlo, ricercarlo, in quanto noi "baby boomers" abbiamo avuto pochi modelli a cui ispirarci.

E dopo aver visto la serie in onda mi sono resto conto di un altro aspetto. I miei genitori si sono sposati nel '59: ho realizzato che avevo voglia di guardare nella loro camera da letto, di rovistare tra le loro cose, oltre a interessarmi a quello che è accaduto al mio Paese. Io non credo nel mercato, chiunque cerchi di seguirlo finirà per fare qualcosa di insignificante.

Sia io sia il canale che avrebbe trasmesso "Mad Men", AMC, abbiamo deciso di fare qualcosa che piacesse innanzitutto a noi. Senza preoccuparci di essere troppo intelligenti, o troppo oscuri. A volte il pubblico vuole uno specchio in cui riflettersi, altre volte vuole solo fuggire. Spero che la serie offra la possibilità di sfuggire ai problemi quotidiani, ma che aiuti anche a sentirsi meno soli, vedendo rappresentata la propria vita.

 

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