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PERCHE’ LE CANZONI DI SANREMO CI SEMBRANO TUTTE UGUALI? – IL DIRETTORE D’ORCHESTRA ENRICO MELOZZI, PER GIOCO AL FESTIVAL CON I COME COSE, SPIEGA I NUOVI MECCANISMI DELL’INDUSTRIA DEL DISCO: "CONFEZIONARE UN BRANO È UN’OPERAZIONE CHIRURGICA DOVE TUTTO È STUDIATO PER INCASTRARSI NEI TEMPI E NELLE LOGICHE DELLO STREAMING. LE CANZONI SI PIEGANO AI CAPRICCI DELL’ALGORITMO DEVONO DURARE TRE MINUTI E MEZZO, DEVONO COMINCIARE DIRETTAMENTE CON LA VOCE DI CHI CANTA, HANNO DEMO DIGITALI CON UN SUONO COSTRUITO IN LABORATORIO” - "LUCIO CORSI? UN VERO ARTISTA IN UN MONDO DI WANNABE – MARTA DONA’? UNA BESTIA VERA" – E SUL FATTO CHE OGNI BRANO HA UNA SFILZA DI AUTORI RIVELA CHE…
Giulia Marchina per “Domani” - Estratti
La telecamera lo inquadra in piedi sul podio. Con la bacchetta mima il gesto di chi è intento a scarnificare uno spiedino in un sol boccone. Una goliardata, appena un attimo prima che la luce in platea si affievolisca, e che quella sul palco ricordi a tutti che la musica sta andando in scena, per la settantacinquesima volta, da Sanremo.
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Il direttore d’orchestra Enrico Melozzi è arrivato a una conclusione: «Oggi confezionare un brano è diventata un’operazione chirurgica, un rituale quasi meccanico dove tutto è studiato per incastrarsi nei tempi e nelle logiche dello streaming».
C’è prima la parte della scrittura, pre-produzione, «spesso con demo digitali, quasi come se l’ispirazione dovesse passare prima da un laboratorio per essere convalidata». In seconda battuta arriva la registrazione, «dove si stratificano le tracce, si lavora sul suono con precisione millimetrica, comprimendo, levigando, rendendo ogni elemento perfetto»; prodotti costruiti a tavolino, «che possano vibrare su qualsiasi impianto, dalla cassa dello smartphone fino ai sistemi audio più sofisticati».
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L’approdo al Festival – «di cui non mi frega niente, perché faccio altro nella vita» – quasi per caso; gli anni dell’Ariston lo hanno reso forse anche più severo di quanto non tradisca la sua aria scanzonata. A Sanremo «non si può ragionare solo in termini digitali, perché c’è l’orchestra, e l’orchestra è carne, sangue e respiro. Il brano si trasforma. La durata è di tre minuti e mezzo, e dentro bisogna metterci tutto: l’epica, la delicatezza, il colpo di scena. La diretta televisiva scompone il suono e lo rigetta fuori in milioni di case: il mix deve essere una formula esatta che tenga conto della magia ma anche della brutalità del mezzo».
Stortura – o evoluzione – di questi ultimi anni è la mancanza di intro strumentali nei pezzi: i brani partono già da subito col cantato, senza dare respiro alla canzone. «È il diktat delle piattaforme digitali e delle radio: devi catturare l’ascoltatore entro i primi cinque secondi, altrimenti sei fuori».
Melozzi spariglia le carte, e nella serata dei duetti decide di osare un’introduzione strumentale di venti secondi con la cover de L’estate sta finendo, eseguita dai Coma Cose con Johnson Righeira. «Per gli standard attuali, un suicidio commerciale», dice. Un azzardo per il concertatore dalla formazione «pratica, più che accademica», che difficilmente altri avrebbero tentato.
Anche perché «negli ultimi cinque anni la direzione artistica del Festival ha dato carta bianca agli artisti sulla scelta del direttore d’orchestra: si può scegliere chi si vuole». Il risultato è che «il 90% di chi dirige lo fa per la prima volta in vita sua. Diventa una presa per il culo all’orchestra, al pubblico, alle istituzioni culturali», spiega Melozzi infastidito.
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E se lo strumentale è messo male, anche la parte vocale non si sente molto bene: «A me l’autotune non dispiace – dice – ma siamo all’abuso. Un conto è correggere, un altro è dare la possibilità a chi nella vita avrebbe dovuto fare tutt’altro, di costruirsi una carriera su un’intonazione che non ha», ma è falsificata.
Con queste premesse, viene meno il concetto di gara canora: «Sanremo non lo è; è una trasmissione televisiva che deve fare ascolti. E gli ascolti si fanno scegliendo gli artisti migliori, l’ordine giusto di uscita. E se azzecchi la tracklist, vinci. Con Amadeus sembrava in atto una rivoluzione, ma ci si è resi subito conto di quanto sia basico il livello di produzione; passati i primi due anni di direzione artistica, tutti si sono omologati».
Il finale di quest’anno? «Non solo il podio, ma la cinquina era bellissima». Lucio Corsi? «Un vero artista in un mondo di wannabe». Brani omologati, si diceva, «con una massa di produttori che copia». E con una sfilza di autori, però. «Perché le quote autorali si vendono. C’è sempre un autore principale, ma gli altri si inseriscono per motivazioni che non hanno a che fare con la musica: per esempio per uno scambio con la visibilità. Raramente tutti hanno dato un contributo».
Brani a prova di algoritmo, o no? «L’algoritmo, questo dio silenzioso che decide cosa meritiamo di ascoltare, cosa scalerà le classifiche, cosa diventerà virale. La musica si piega ai suoi capricci. I brani vengono scritti per compiacerlo: strofe brevi, ritornelli immediati, durata ridotta all’osso. Ma la vera arte non può essere una pedina di questo gioco, quando è autentica, non si inchina davanti a nessun algoritmo».
Olly ha vinto, e con lui la sua manager Marta Donà che Melozzi definisce «una bestia vera: sa il fatto suo, combatte per gli artisti e si sceglie solo cavalli vincenti che sa come “spingere"». La fa sembrare una faccenda al limite del bellicoso, più che un festival della musica italiana: «Qualunque posto, in confronto al mercato della discografia, è una sala da tè».
enrico melozzi foto di bacco
LUCIO CORSI OLLY - FOTO LAPRESSE
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