L'EROE DEVE MORIRE - LE SERIE TV, DA "HOUSE OF CARDS" A "GREY'S ANATOMY", APPLICANO IL TEOREMA DI 'PSYCHO': I PROTAGONISTI DEVONO SPARIRE PER RILANCIARE LA SERIE O TENTARE IL COLPO DI SCENA - DA ETTORE A KURT COBAIN, MORIRE GIOVANI PER RESTARE ETERNI
****ATTENZIONE: SEGUONO SPOILER!****
1. UCCIDERE L'EROE
Elena Stancanelli per “la Repubblica”
Dovevano essere davvero furibondi gli autori della serie televisiva Downton Abbey quando hanno scelto di fare morire il protagonista, Matthew Crawley, in un incidente di macchina, la notte in cui sta andando e vedere suo figlio che è appena nato. Non è una bella idea, non è neanche un’idea: è un dispetto. Il fatto è che Dan Stevens, l’attore che lo interpretava, non aveva firmato il contratto per la quarta serie. Gli è toccata una morte scema, con la macchina capovolta e le ruote che continuano a girare.
michael dobbs con il cast di house of cards
Piccole vendette di sceneggiatori comprensibilmente furibondi: sull’alchimia tra il buonissimo e biondo Matthew e la algida e ricchissima Lady Mary si reggeva tutta la storia. Dopo di loro, il diluvio. Non può essere che l’eroe, o l’eroina muoiano a metà di un racconto. Come se uno facesse morire Enea e poi andasse avanti con l’ Eneide. Eppure nelle serie tv ha iniziato ad accadere. A volte si spiega tutto con l’abbandono dell’attore, come in questo caso. Ma non è questo. Un buon racconto passa sopra a tutto, si chiama sospensione dell’incredulità.
C’è qualcosa di più, nella serialità, che consente questo inedito peccato narrativo, una manica larga in materia di manutenzione dell’eroe. Prima di tutto perché le vicende sono quasi sempre sono affollate. Molti personaggi, trame che si intrecciano, gente che va e viene. Come Patrick Dempsey, alias il dottor Derek Shepherd, appena ucciso dagli sceneggiatori di Grey’s Anatomy. O Zoe Barnes, la giornalista di House of Cards, che viene spinta sotto alla metropolitana nel primo episodio della seconda stagione.
Sembra un paradosso, ma in certe babeli può essere difficile stabilire con sicurezza chi sia davvero il protagonista. Il vecchio criterio – l’eroe è quello al quale ti affezioni – può non essere il più esatto. Con tutto quel tempo a disposizione, persino il migliore di noi può diventare odioso e cedere lo scettro. Senza considerare che quando ci sono guerre o scontri di potere, i cadaveri restano sul campo con facilità, e non sempre si tratta di gregari. Il Trono di spade è una specie di continuo esercizio di elaborazione del lutto.
La morte dell’eroe è diventata quindi un estremo rimedio, un danno collaterale, ma, e questa è la cosa più interessante, in certi casi è addirittura un colpo di fortuna. In Homeland per esempio, un’altra serie tv riadattata da un format israeliano. Un marine americano, a lungo prigioniero di Al Qaeda, torna in patria coperto di onore. Fanfare, promesse di cariche politiche, ma qualcosa non torna. Se ne accorge un’agente della Cia con un disturbo bipolare, Carrie Mathison.
DAMIAN LEWIS ALIAS NICHOLAS BRODY HOMELAND
Brody, l’eroe, si è convertito all’Islam dopo aver visto morire sotto le bombe degli americani il figlio del suo carnefice/salvatore del quale era diventato precettore. Non sarà mica diventato a sua volta un terrorista? Non si sa, ma per non sbagliare i due si innamorano. E va anche benino per un po’ ma a un certo punto (nell’ultima puntata della seconda serie) Brody viene accusato del più grande attentato contro gli Stati Uniti, in cui muoiono centinaia di persone.
I poveri sceneggiatori sono in un guaio. Nella terza serie sono costretti a far accoppiare, sia pure saltuariamente, i due protagonisti, che però sono diventati l’uomo più ricercato d’America e un’agente della Cia. Puntata dopo puntata lo spettatore sente crescere dentro di sé l’imbarazzo, si dibatte sul divano e pur avvinto dalla dipendenza, pensa soltanto: no, questo no, questo no! È in quel momento che gli sceneggiatori, spalle al muro, hanno l’idea che cambierà il destino della serie: ammazziamo l’eroe. L’eroe? E poi come andiamo avanti?
DAMIAN LEWIS ALIAS NICHOLAS BRODY HOMELAND
Poi vediamo. E Brody muore. Da quel momento succede il miracolo: la serie rinasce come una fenice dalle ceneri. Ma nella misura breve è diverso. Nell’unità di tempo di un romanzo, o un testo teatrale, è possibile questo violentissimo passaggio di consegne tra personaggi?
Nel Giulio Cesare di Shakespeare, come tutti sanno, il nostro eroe viene ucciso molto prima del sipario. Non solo: la scena più famosa, quella che tutti quanti ricordiamo – l’orazione funebre di Antonio – avviene appunto al funerale di lui. Ma Giulio Cesare non è il racconto della vita di un uomo, ma del potere, e delle trame che lo sorreggono. Le tragedie non si occupano di psicologia, né dei personaggi né del pubblico. E allora Cime Tempestose ? Non è forse il racconto di tutto quello che accade dopo che la protagonista, Catherine, muore? Tutto quello che Heatchliff fa per vendicarsi ed estinguere
l’inestinguibile amore con un odio perfetto?
IL RACCONTO DEI RACCONTI GARRONE MATTEO
Anche il cinema uccide spesso i suoi eroi. Nel nuovo film di Matteo Garrone, Il Racconto dei racconti, un negromante spiega: «A ogni azione corrisponde una reazione». E così, per avere finalmente un figlio e accontentare la sua Regina (Salma Hayek), il Re (John C. Reilly) deve morire nelle prime scene, mentre lotta contro un drago marino. Clint Eastwood aveva opzionato l’autobiografia di Chris Kyle quando il cecchino reduce dall’Iraq non era ancora stato ucciso. Sul set ha dovuto aggiornare tutto, concludendo American Sniper con la morte del suo eroe.
In Gravity George Clooney ci dice improvvisamente addio dallo spazio per lasciare tutta la scena a Sandra Bullock. Un paio d’anni fa è uscito un film con Ryan Gosling, The place beyond the pines ( Come un tuono in Italia, in virtù delle leggi misteriche del doppiaggio). Un film così così, in cui l’attore è un motociclista teppistello, con un figlio che non riesce a mantenere e una donna da riconquistare, e per entrambe le ragioni si mette nei guai. Tanto nei guai che, più meno a metà film, muore. Sconcerto.
Il pubblico rumoreggia, che cosa voleva fare il regista lasciandoci per un’altra ora senza l’unico motivo per cui avevamo pagato il biglietto, pura avanguardia stilistica? Ma tutto è cominciato molti anni prima: nel 1960, Alfred Hitchcock gira Psycho. Adattando il romanzo di Robert Bloch, autore di horror vagamente ispirati a Lovecraft, racconta la storia di una donna, Marion Crane, che ha un amante e una vita noiosa.
Per smania ruba un pacco di soldi e scappa. Durante la fuga, dopo aver cambiato macchina per non farsi trovare, sotto un temporale sbaglia strada e si ritrova al Bates Motel. Poi muore. Come tutti sanno, la accoltella Anthony Perkins, sotto la doccia. Da questo momento in poi, e per sempre nel nostro immaginario, il protagonista del film è quell’uomo. E nessuno rimpiange Marion e le sue ubbìe. Perché Hitchcock è un genio, e fa del nostro immaginario tutto quello che vuole.
Certo. Ma anche perché io, l’altro e il mondo hanno finito per attorcigliarsi parecchio, e proprio da questa confusione rituale è stato partorito molto di quello che ci piace. E alzi la mano chi pensa che Palla di lardo e il sergente Hartman non siano i protagonisti di Full Metal Jacket nonostante muoiano entrambi a metà film.
2. DA ETTORE A COBAIN IL LEGAME TRA NOI E L’EROS DIVINO
Silvia Ronchey per “la Repubblica”
C’È chi dice che la parola eroe, in greco heros, abbia a che fare con la radice di eros, in greco amore. Degli dèi anzitutto: «Muore giovane chi è amato dagli dei», secondo un verso di Menandro reso celebre da Leopardi, che lo mise in exergo a Amore e morte . In effetti gli eroi muoiono giovani, o comunque prima del tempo. Ettore, Patroclo, Pallante, Lauso, Mezenzio. James Dean, Charlie Parker, Jim Morrison, Kurt Cobain, River Phoenix. Guerrieri coraggiosi, arcieri dalla mira infallibile, attori sul palcoscenico del mito degli antichi e dei moderni, la morte precoce è l’essenza del loro eroismo.
Prima della forza bellica, dei poteri e delle abilità che li portano a compiere gesta straordinarie, è eroica la loro capacità di cogliere la vita in controtempo; di prevenire l’agguato della morte; di anticipare la fine di una vicenda perfetta, di un idillio col mondo e le sue forze. L’eroe coglie la morte con il tempismo con cui l’amante sapiente tronca una perfetta storia d’amore: senza lasciare ricordo di imperfezione o decadimento, ma solo sorpresa e rimpianto.
james dean fa benzina alla sua maledetta porsche
Troppo bello per essere vivo: questo si può dire sempre dell’eroe. Ma l’eroe è bello come un vaso zen: è fallato, ha un’imperfezione congenita, un’impercettibile incrinatura che fa riconoscere subito in lui l’affinità con la morte. Che sia il tallone di Achille o lo spleen, il marchio somatico di un’indole depressa, ogni eroe ha in sé, visibile nel corpo, leggibile nel carattere ancora prima che nell’interpretazione postuma del destino terreno, l’inizio della fine, l’indizio della morte. È per eccellenza infelice: nel mondo greco è sottomesso al volere degli dèi, a un karma cui si adegua con feroce e malinconica vitalità.
È bello e buono, kalòs kai agathòs : coniuga la bellezza fisica all’ agathìa aristocratica, l’audacia con la fedeltà ai vincoli di un’origine ibrida, spesso semidivina. Sospeso tra il sovramondo degli dèi e il mondo infero verso cui si affretta, il suo temporaneo passaggio nell’umanità si traduce in uno scambio simbolico: sopprimendo l’istante, lo consegna all’eternità; introduce nella precarietà dell’esisten- za il desiderio della bellezza; suggerisce quello che James Hillman chiamava l’istinto dell’anima al suicidio; rivela che è la morte, alla fine, la vera impresa che l’eroe compie, che l’impresa eroica per eccellenza è il morire — l’impresa di tutti noi.
Nell’epica greca e latina che ha messo in scena i nostri primi eroi la morte dell’eroe è quasi più importante del valore che ha la sua vita, dell’obiettivo che ha raggiunto. Nell’Iliade come nell’Eneide ogni volta che un eroe muore la narrazione improvvisamente dimentica la ragione profonda della guerra, il conflitto si addensa intorno alle sue spoglie: il suo corpo e la sua armatura diventano per centinaia e centinaia di versi il più vero e urgente motivo di combattimento.
Se la morte dell’eroe non è ritualmente allestita, se il guerriero caduto non è sepolto o cremato secondo il rito, la sua anima sarà tormentata e non potrà entrare nell’Ade; sarà un vampiro, un non morto, una vaga ombra; la collettività non potrà usare il suo sacrificio. Perché tra l’eroe e il suo popolo, il suo pubblico, la sua audience millenaria, oltre che uno scambio simbolico c’è un’identificazione sacrificale. L’eroe muore per noi e così facendo sconfigge la morte, come Cristo, nell’inno pasquale bizantino che ancora la liturgia ortodossa esegue spargendo eroiche foglie di alloro, “con la sua morte calpesta la morte”. Dopo questo sacrificio, con le parole di Giovanni Crisostomo, «noi, è vero, moriamo ancora come prima ma non rimaniamo nella morte, e questo non è più morire».
In realtà la morte eroica tradizionale è solo una delle varie possibilità di metamorfosi. Non c’è mai il nulla alla fine della storia, ma sempre qualcos’altro che la psiche accoglie. Il mito si rinnova sempre, fuori ma soprattutto dentro di noi. L’idillio interrotto, il corpo trafitto, il sipario abbassato, lo spegnersi della musica sono immagini mitiche che parlano all’anima di se stessa. Gli eroi che muoiono sono forme archetipiche nelle quali riconoscersi: infondono il coraggio quotidiano di non arrendersi alla morte.