PENATI CHI? - LE ACCUSE CONTRO L’EX PRESIDENTE DELLA PROVINCIA SI FANNO SEMPRE PIÙ GRAVI MA IL PD FA FINTA DI NIENTE - I MAGISTRATI PARLANO DI UNA MEGA TANGENTE, MA PER IL PARTITO NON SI VA OLTRE LA SOSPENSIONE (GIÀ DECISA DALL’INTERESSATO) E I CONSUETI “ASPETTIAMO CHE LA MAGISTRATURA FACCIA IL SUO CORSO”, “LO STATUTO NON PREVEDE MISURE PIÙ SEVERE” (MANCO FOSSE LA COSTITUZIONE) - PERSINO PER IL ROTTAMATORE CIVATI “SERVE UNA RIFLESSIONE POLITICA”…

Wanda Marra per "il Fatto quotidiano"

Personaggi come Filippo Penati, come Pronzato, come Frisullo, come Tedesco dovrebbero essere messi completamente al di fuori del partito". Quella di Ignazio Marino, senatore Pd, è una voce forte e chiara. Ma risuona come una voce nel deserto, il giorno dopo le ultime notizie sull'inchiesta riguardante Filippo Penati, l'ex braccio destro di Pier Luigi Bersani. Nessuna presa di posizione nel Pd, né politica, né personale. Nessuna valutazione, nessuna riflessione ufficiale.

Nonostante quel foglio Excel trovato dai magistrati di Monza prima dell'estate nel computer dell'architetto Renato Sarno, che viene indicato dai pm Walter Mapelli e Franca Macchia come il nuovo collettore di tangenti per conto dell'esponente Pd. Sarno avrebbe raccolto da vari "donatori" almeno 1,4 milioni di euro, una mega-tangente, poi girati a persone vicine a Penati. Tra loro, Franco Maggi, suo portavoce (nominato a un certo punto anche direttore editoriale di Youdem, carica rimasta praticamente onoraria visto che lui quelle funzioni non le ha mai svolte) e Claudia Cugola, compagna di Penati, sua ex segretaria, da lui nominata nell'ufficio di presidenza della Regione Lombardia.

Dove, peraltro, dopo le di lui dimissioni, è rimasta grazie all'ombrello del Pd che - nonostante l'aria che spirava - decideva di prorogarle il contratto scaduto il 20 settembre "perché non ci piace lasciare la gente a spasso", secondo quanto dichiarato da Maurizio Martina, segretario regionale del partito lombardo. "Aspettiamo che la magistratura faccia il suo corso", si limitano a dichiarare dallo staff di Bersani. Aiutati evidentemente dal brusco cambio di scenario che ha subito la politica italiana: nell'era Monti l'agenda la detta la crisi economica mondiale, e le inchieste giudiziarie si trovano relegate sullo sfondo.

Il campanello d'allarme lo fa suonare ancora Marino: "Il disgusto per i partiti non è evidentemente legato solo alla crisi di questo momento, ma a un modo di gestire la politica degli ultimi 15-20 anni". Modo di cui il caso Penati è emblematico. Sull'ex braccio destro di Bersani il partito fin dall'inizio ha mostrato imbarazzi e isterismi (a un certo punto lo stesso segretario si spinse a dichiarare la volontà di fare una "class action" degli iscritti contro chi "gettava fango").

E la decisione presa a settembre dalla Commissione dei garanti democratici, presieduta da Luigi Berlinguer, di sospenderlo dal partito è ancora una volta una decisione a metà. Sospensione, non espulsione. E che per di più arrivava dopo che l'interessato si era già auto-sospeso. Una misura temporanea in attesa di una sentenza di condanna (o di assoluzione) da parte di un Tribunale.

A chi aveva obiettato che sarebbe stata più comprensibile ed efficace una misura più decisa i Democratici avevano replicato che, in assenza appunto di condanna da parte della magistratura, "lo Statuto non prevede misure più severe". Oggi la risposta rimane questa. Spiega il magistrato Felice Casson, anche lui senatore Pd: "Avrei voluto che fosse possibile agire in altri modi, ma lo Statuto non lo prevede". Immutabile verbo, quasi quasi, sembra si parli della Costituzione.

"D'altra parte però, lui a questo punto non influisce più in nulla nelle decisioni del partito", dice Casson. Ma poi ribadisce quanto detto già all'epoca: "Avrei preferito si dimettesse dalla Regione. Ma non dipende da noi". Lui non solo non si è dimesso, ma è andato nel Gruppo misto (unico componente in Regione) in virtù del quale ha ben 215mila euro annui da gestire a sua totale discrezione.

Eppure neanche uno come Pippo Civati che è suo collega in consiglio regionale e che ha un curriculum da rottamatore si sente di spendersi per una forzatura, o una riconsiderazione dei dogmi dello Statuto. "Quello che serve è una riflessione politica", dice. Non ha molto da aggiungere neanche Andrea Orlando, che come responsabile Giustizia del Pd ha titolo per parlare: "In mancanza di una sentenza, abbiamo applicato lo Statuto. Poi, quando si tratterà di rifare la tessera, lui non potrà riscriversi. E così sarà a tutti gli effetti fuori dal partito".

 

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