ARRIVA IL WIKIPARTITO! - ASSANGE SI CANDIDA IN AUSTRALIA MA NON CREDE ALLA DEMOCRAZIA DIGITALE ALLA GRILLO: ‘’MEGLIO DELEGARE LE SCELTE A PERSONE ESPERTE E COMPETENTI’’

Stefania Maurizi per espresso.it

Il palazzo in mattoncini rossi a dieci passi dai celebri magazzini Harrods è ancora quello. E gli agenti di Scotland Yard che lo sorvegliano giorno e notte sono ancora lì con i loro furgoni e le loro occhiute telecamere. E' passato un anno, ma Julian Assange è ancora rinchiuso nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, senza la possibilità di mettere un solo piede fuori senza essere arrestato da Scotland Yard, che mantiene l'edificio sotto un totale e continuo controllo, costato al contribuente inglese 4 milioni di sterline negli ultimi 12 mesi. E' in questa ambasciata che "l'Espresso" è entrato per la seconda volta da quando il fondatore di WikiLeaks ha ottenuto asilo politico dall'Ecuador.

L'Espresso lavora con Assange e la sua organizzazione da oltre tre anni. L'ha incontrato a Berlino poche settimane dopo il caso svedese, con il suo bagaglio e i suoi computer stranamente spariti durante il viaggio aereo per Berlino e lui costretto a presentarsi all'appuntamento con una busta di plastica con spazzolino e sapone.

L'ha visto accerchiato durante il rilascio dei cablo della diplomazia Usa, lasciato solo nella battaglia contro le carte di credito, messo agli arresti domiciliari per diciotto mesi con un braccialetto elettronico intorno alla caviglia e infine sepolto in una stanza dell'ambasciata di circa 20 metri quadri piena fino a scoppiare di libri, computer, tapis roulant, tavolo, libreria, letto. Mai Julian Assange si è dato per vinto. E oggi che lo ritroviamo nella stessa stanza, Assange non solo regge, ma è in grande forma fisica e mentale.

Il viso è tornato quello di un tempo e il corpo non appare segnato dai dodici mesi di segregazione. Anche la stanza in cui vive e lavora è più vivibile. Il letto è sparito, la libreria ingombrante è stata spostata. Ma l'assenza di aria fresca e di luce naturale continua a essere impressionante. E la lavagnetta lucida su cui è abbozzato a pennarello un protocollo medico rimane lì a ribadire l'eccezionalità della sua situazione.

Ci accoglie a cena, l'unico momento in cui si distoglie dal computer che è praticamente parte della sua identità. La routine di Julian è rimasta la stessa: lavora fino a tarda notte. "E' lo scontro con gli Stati Uniti che ha creato un'enorme pressione su di noi a tutti i livelli: di Stato, di intelligence, di politica. E a livello legale, finanziario e mediatico", ci aveva detto l'ultima volta. Sei mesi dopo, questi problemi rimangono tutti e nessuno sa come si concluderà questa storia incredibile.

La prossima settimana negli Stati Uniti inizierà il processo a Bradley Manning, il giovane soldato americano che ha ammesso di aver passato i documenti segreti del governo Usa a WikiLeaks. "Voglio che l'opinione pubblica sappia la verità [...], perché, senza informazione, non può prendere decisioni consapevoli", ha confessato in una chat online che gli è stata attribuita e in cui ha spiegato le motivazioni dietro la sua decisione di passare un enorme numero di file segreti a WikiLeaks.

Subito dopo quella chat, nel maggio del 2010, Manning è stato arrestato. E' stato tenuto per 11 mesi in condizioni inumane e poi, in seguito a una campagna internazionale, le sue condizioni di detenzione sono migliorate. E' in prigione senza processo da tre anni. Il prossimo 3 giugno dovrà presentarsi di fronte alla corte marziale per un dibattimento in cui la segretezza regnerà sovrana: 24 testimoni dell'accusa testimonieranno in segreto. Mentre WikiLeaks si prepara alle udienze sfidando la riservatezza del processo con un ricorso legale, Julian Assange parla a "l'Espresso" della sua decisione di candidarsi per il senato australiano.

Lei è pronto a correre per le elezioni australiane e ha scritto il libro "Cypherpunks" in cui vede internet come un grande strumento per l'emancipazione, ma allo stesso tempo anche come uno strumento per il totalitarismo. Come vede il rapporto tra democrazia e internet?
«Negli ultimi vent'anni la società si è completamente fusa con la Rete, che ne è diventata il sistema nervoso sia a livello nazionale che internazionale. Le relazioni con gli amici, la famiglia, i rapporti tra le grandi e piccole aziende, tra gli individui e lo stato e anche tra gli stati sono ormai mediati da internet a un livello di cui la gente neppure si rende conto.

In risposta al potenziale democratico della Rete, gli stati hanno fatto una contromanovra: scoprire cosa fanno esattamente i cittadini in ogni minuto del loro tempo, ovvero la sorveglianza di massa su scala così massiccia che neanche la Stasi avrebbe potuto immaginarla. Sembra fantascienza ma non lo è.

E' qualcosa che è accaduto per ragioni molto pratiche: i costi della sorveglianza di massa si dimezzano ogni anno. E questo ha portato al più grande furto nella storia dell'umanità: il furto della mappa delle relazioni sociali in intere nazioni. E' possibile scoprire l'intera rete di relazioni usando la mappatura delle comunicazioni, che permettono di capire chi parla con chi e quando. Se lei ha le registrazioni delle comunicazioni di un intero Paese, usando i computer può automaticamente fotografare l'intera rete delle relazioni sociali: questo è esattamente quello che ha fatto la National Security Agency negli Stati Uniti»

Lei vede la sorveglianza come la più grande minaccia alla democrazia, ma internet permette anche la partecipazione democratica, l'accesso all'informazione, insomma, luci e ombre...
«Certo, ma la sorveglianza è così potente che nessuno può sottrarvisi, anche se è possibile tenere parte delle nostre vite al riparo da essa, con qualche sforzo».

Guardando al futuro, come pensa che la Rete ridisegnerà le democrazie? Rafforzando la partecipazione popolare o facendo aumentare, al contrario, il controllo sociale?
«E' molto difficile dirlo ed è per questo che i tempi in cui viviamo sono interessanti. Siamo a un bivio: cosa accadrà? Parte della traiettoria della nostra società porta a un'utopia felice; parte invece va verso un mondo negativo, una distopia. Ma rimane da vedere se davvero finiremo in una distopia. Ci sono molte ragioni che portano a ritenerlo.

La tecnologia tende di per sé alla centralizzazione perché è complessa da realizzare e quindi richiede specializzazione e accentramento. Guardi alle grandi aziende di Internet: sono industrie estremamente complesse e di conseguenza tendono a fondersi con lo stato per preservarsi. Poi, però, la grande tendenza nella direzione opposta è la democratizzazione e la nuova politica che ne risulta come conseguenza. E questo è possibile vederlo con Beppe Grillo. Io non so come il suo movimento politico si sia formato esattamente, ma è qualcosa che ha senso: è il risultato di una nuova politica che prende forma molto rapidamente grazie a Internet, che fa breccia nella barriera delle comunicazioni eretta dai media tradizionali».

Quanto è informato sul movimento di Beppe Grillo?
«Non abbastanza. Lo osservo a intermittenza da tre anni. Il suo successo è innegabilmente impressionante sia dal punto di vista politico che logistico. E' uno dei pochi politici italiani che ha supportato pubblicamente me e WikiLeaks durante la tempesta».

Quando lei ha chiesto asilo politico
«Sì, e questo va a suo credito».

Beppe Grillo usa Internet non solo come un megafono per raggiungere l'opinione pubblica, ma anche per prendere decisioni politiche e per capire cosa vogliono i cittadini. Lei come guarda a questi tentativi di usare Internet e piattaforme digitali, come ad esempio "Liquid Feedback", in modo da consultare la Rete e prendere decisioni?
«In modo piuttosto scettico [sorride con garbo ndr]. Io non credo che sia necessario dare alla gente quello che la gente pensa di volere in termini specifici. Le persone vogliono essere trattate in modo giusto, vogliono che gli esseri umani a cui sono legate siano trattati con compassione e rispetto e che le decisioni che le riguardano siano prese in modo intelligente e non come risultato della stupidità o della corruzione.

Sebbene io sia convinto che la democrazia diretta sia molto importante per controllare gli eccessi dei leader politici, credo che le persone siano impegnate a vivere le proprie vite e non dovremmo aspettarci che si impegnino nelle questioni specifiche della politica o nell'avere a che fare con le burocrazie e gli affari esteri. Vogliono delegare queste funzioni a persone di cui si possono fidare, esattamente come quando si nomina un avvocato per andare in tribunale. Non si va in tribunale da soli, si nomina un avvocato di cui ci possa fidare e che sia competente e capace. E così in modo analogo in politica».

Quindi lei è molto scettico su queste piattaforme per la democrazia diretta...
«Ho visto il Partito pirata di Berlino: le interazioni tra le piattaforme e le dinamiche politiche e sociali sono state un disastro totale. Il movimento di Beppe Grillo ha qualcosa di veramente importante che il Partito pirata di Berlino non ha: ha Beppe Grillo».

La leadership, intende dire. Quindi lei crede ancora in un processo in cui le scelte siano centralizzate?
«Io credo che le persone debbano assumersi la responsabilità delle loro azioni. La leadership non è solo data dal leader che ha una qualche visione del futuro e che è capace si mettere le cose insieme. La leadership ruota intorno al fatto che, se le cose vanno male, chi è che deve assumersene la responsabilità? Se il partito è strutturato in modo tale che nessuno è responsabile dei fallimenti, allora, ovviamente, ci saranno fallimenti ogni volta».

Mentre parliamo con lei, troviamo ironico il fatto che lei parla con la stampa italiana, ma ha avuto degli scontri micidiali con il Guardian e il New York Times. Mentre Grillo parla con il Guardian e il New York Times, ma non con la stampa italiana...
«Sì, se vuole darmi un messaggio per la stampa italiana, poi glielo passo io! [ride ndr]. Io non sono di nazionalità inglese, ma mi trovo in una situazione che rappresenta una minaccia per il prestigio dello Stato inglese, e così i media inglesi sono così ostili con me che è pericoloso per me parlare con loro, non perché sia preoccupato per le loro domande, ma perché non so come saranno editate. Eppure anche nei media inglesi noi continuiamo a lavorare con i singoli giornalisti e anche nelle peggiori organizzazioni ci sono persone perbene».

Lei è un attivista internazionale ma ora lavora anche a livello locale, perché si è candidato alle elezioni australiane. Che cosa l'ha spinta a farlo?
«Anche se siamo un'organizzazione assolutamente internazionale, è importante per noi avere paesi in cui ci sentiamo al sicuro. In vari periodi della nostra attività questi paesi sono stati l'Islanda, la Germania, l'Ecuador, l'Australia, la Francia e addirittura il Kenya per un certo periodo. L'opinione pubblica australiana ci ha supportato molto e quindi ha senso cogliere questa opportunità come attivisti».

Lei crede veramente che in politica ci sia spazio di manovra per cambiare lo status quo?
«L'Australia dal punto di vista geopolitico è un caso interessante. A livello militare e di intelligence è completamente dominata dagli Stati Uniti, ma si trova in Asia. Ha una popolazione relativamente piccola, 22 milioni di persone in un paese delle dimensioni degli Stati Uniti, e formalmente è diventata una nazione indipendente nel 1901.

La struttura sociale è ancora piuttosto fluida, e anche se io non voglio enfatizzare troppo il ruolo della democrazia elettorale in Australia, credo che sia molto più significativo di quello che la democrazia elettorale gioca in paesi come l'Inghilterra, che ha una struttura sociale più moribonda, tipo l'Italia».

Quale sarebbe la sua priorità assoluta come senatore?
«Abbiamo un certo numero di priorità, ma il partito deciderà quale è la numero uno: non voglio marginalizzare le persone che ci stanno lavorando».

Ma cosa pianifica? Di lavorare sulla politica estera, sulla politica della Rete, su cosa?
«Credo che il ruolo più importante del Senato australiano sia quello di interrogare la burocrazia dello Stato e di scrutare la legislazione e, se necessario, chiedere cambiamenti. Sono un esperto nell'avere a che fare con enormi quantità di documenti degli apparati statali e delle burocrazie con le loro bugie e i loro trucchi».

Come pensa di lavorare da questa ambasciata, se sarà eletto?
«Se eletto, non mi insedierò formalmente nel mio seggio fino a luglio 2014 e spero che a quel punto la mia situazione sarà risolta. Se non lo sarà, la Costituzione australiana prevede che io abbia ancora due mesi di tempo, dopo due mesi il Senato può scegliere di prolungare il mio seggio vacante oppure di votare per far decadere la mia elezione. Se voteranno per rimuovermi, ne risulterà uno scandalo politico estremamente interessante».

E' veramente convinto di scendere nell'agone della vecchia politica?
«Assolutamente no. Sarebbe semplicemente una perdita di tempo impegnarsi nella politica tradizionale. Il mio scopo e quello del mio partito è di cercare di cambiare il più possibile la natura del governo australiano e la mia funzione è di essere un esempio di quel cambiamento».

Quindi pianifica di essere un sovversivo anche in politica...
«Questo lo dice lei...».

 

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