CUBA LIBRE (MA NON TROPPO) - A L’AVANA EUFORIA E FESTE IN STRADA MA C’È CHI PARLA DI “TRADIMENTO” - LA BLOGGER DISSIDENTE YOANI SÁNCHEZ: “IL DISGELO È UN SUCCESSO PER IL REGIME, CHE LO USERÀ PER RAFFORZARSI” – E VIENE CONTESTATA
Paolo Mastrolilli per “la Stampa”
Le vecchie auto Anni Cinquanta che arrancano sul lungomare del Malecon sono sempre più vecchie, a parte le eccezioni degli ultimi modelli importati dalla Cina. E i muri screpolati dalla salsedine, nelle vecchie case coloniali del centro intorno alla cattedrale, sono sempre più screpolati, a parte quelli ripuliti dalla generosità di qualche intervento di restauro internazionale.
Così va anche con i sentimenti, dopo le prove di dialogo annunciate dai presidenti Obama e Castro, che sono inversamente proporzionali all’età: meno sono gli anni, più è la speranza.
I giovani, persino i bambini delle scuole elementari, hanno celebrato la novità come l’ipotesi di una vita finalmente diversa, scendendo in piazza con le bandiere come se avessero vinto una partita di baseball. Sul lungomare carovane di auto suonavano clacson all’impazzata, le parate invadevano i vicoli della città vecchia per celebrare «il nuovo inizio». Gli anziani, quelli che magari avevano combattuto per la rivoluzione e adesso l’hanno ripudiata, osservano con la diffidenza di chi ha visto troppe illusioni deluse. Chi, quella Revolución non l’ha mai ripudiata, diceva a bassa voce: «Questo è un tradimento».
Riforme concrete
«Al momento - spiega il dissidente storico Elizardo Sanchez - questo è solo un accordo tra governi, che non sappiamo neppure se funzionerà. A noi, alla gente comune, interessano invece le riforme concrete per il rispetto dei diritti umani, la libertà e l’economia di mercato, che il regime non sembra ancora pronto a fare».
È curioso, ad esempio, come hanno reagito la blogger Yoani Sánchez e la dissidente Miriam Celaya, che scrive per il giornale online fondato proprio da Yoani. La prima dice che l’accordo con Washington è «un successo per il regime, che lo userà per rafforzarsi». La seconda, invece, pensa che sia stato «una mossa strategica intelligente. Non è una sconfitta per la democrazia, o un tradimento della gente che combatte a Cuba per farla affermare. L’apertura mette il governo sulla difensiva», nel senso che sarà costretto a far sentire i progressi alla gente, oppure pagherà il prezzo della delusione.
La questione, almeno quella economica, si può ricondurre a pochi numeri. I dati del governo, probabilmente gonfiati dall’ottimismo, dicono che l’economia cubana quest’anno è cresciuta dell’1,4%, non esattamente un trionfo. Raul ha consentito la privatizzazione di alcune attività imprenditoriali, e circa 300.000 persone su una popolazione di 12 milioni di abitanti hanno tentato la strada del business, dal settore agricolo a quello dei servizi. Il risultato però è stato più di impatto psicologico, che concreto.
Progetti sociali e Stato
Quando ad aprile scorso avevo incontrato all’Onu Mariela Castro, la figlia di Raul, mi aveva spiegato così il processo in corso: «Stiamo attualizzando la strategia economica, non per tornare al capitalismo, ma per fortificare il progetto sociale. Prima si applicava la dottrina statalista in maniera troppo restrittiva. Lo Stato resta responsabile di settori come la salute, l’istruzione, la cultura, la sicurezza sociale, ma nel campo economico era necessario aprirsi ad altre possibilità, come le imprese miste e straniere, le cooperative private. È un processo in cui stiamo imparando e creando».
Ora a questo esperimento si aggiunge la svolta americana, che il regime userà per rafforzare la propria mano. Cercherà di controllare i soldi e le risorse in arrivo, in modo da rivendicare gli eventuali risultati positivi e trasformarli in strumenti per stabilizzare la transizione verso l’inevitabile era post castrista, se non altro perché Fidel è semipensionato e Raul ha passato gli ottant’anni. I dissidenti invece sognano che l’allentamento dell’embargo e l’aumento della comunicazione con gli Stati Uniti inneschino il processo di dissoluzione del regime, piantando semi di libertà che non consentiranno più al passato di riprodursi sotto qualche altra forma.
I soldi e i sogni
Per l’intanto, chi sta in strada pensa soprattutto ai soldi che dovrebbero arrivare, alimentando i sogni. Alzare le rimesse dei parenti americani da 500 a 2000 dollari, per esempio, qui significa aggiungere il ricco compenso di un intero anno di lavoro.
Cose semplici come i desideri di Leon, che gestisce un servizio di auto al Vedado, e adesso spera di vedere «più parti di ricambio, e più clienti».
Magari conservando l’istruzione pubblica per i figli e l’assistenza sanitaria gratuita, fornita da una struttura medica che per certi versi sarà pure un mito, ma ha regalato orgoglio al regime se persino Washington, in tempi non sospetti quando il negoziato segreto era ancora in corso nei palazzi vaticani, ha dovuto ammettere che il contributo dato dai medici cubani alla lotta contro l’Ebola in Africa è stato essenziale. Altro che i tempi in cui L’Avana si faceva riconoscere solo per i soldati mandati a combattere in Angola.
L’isola in bilico
L’odore umido che si respira sul Malecon è sempre lo stesso, e per certi versi conforta. L’isola resta in bilico, tra speranza e scetticismo. Epperò ventidue anni fa, quando il dissidente cattolico Oswaldo Payà mi diede il primo appuntamento al bar dall’hotel Habana Libre «perché così se mi arrestano lo vedono tutti», persino sognare questi sogni sarebbe stata follia.