L’EUROPA ESPORTA: LA CRISI IN AMERICA - PAROLA DI DAVID BROOKS, COMMENTATORE CONSERVATORE DEL “NEW YORK TIMES”: “ABBIAMO TUTTI SPESO RISORSE CHE NON AVEVAMO E ORA NON TROVIAMO UNA RICETTA CREDIBILE PER RIATTIVARE LA CRESCITA, INDISPENSABILE PER PAGARE I DEBITI. SIAMO FINITI IN UN VICOLO CIECO INTELLETTUALE” - I TEDESCHI: “HANNO FATTO LE COSE GIUSTE SENZA RIEMPIRSI DI DEBITI, PERCHÉ DOVREBBERO CARICARSI SULLE SPALLE IL SALVATAGGIO DI PAESI CHE HANNO VISSUTO AL DI SOPRA DELLE LORO POSSIBILITÀ?”...

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"

«Nella storia ogni generazione ha sempre avuto qualche incentivo a spendere subito per sé stessa, promettendo di saldare il debito in un futuro più o meno remoto. Ma nessuna società si era mai arricchita con questo meccanismo come quella attuale e nessuno aveva mai trasferito oneri enormi sulle generazioni future come abbiamo fatto noi. Sapevamo che, dopo gli eccessi dell'era del baby boom, sarebbe arrivata l'ora della resa dei conti.

Temo che gli eventi di queste settimane in Europa siano solo un anticipo di quello che ci aspetta. Anche qui, negli Stati Uniti. Voi avete molti problemi, a cominciare dalle pensioni. Noi abbiamo il macigno della sanità pubblica per gli anziani, ognuno dei quali mediamente costa, in cure mediche, 300 mila dollari più di quello che ha versato nella sua vita contributiva: non può durare».

David Brooks, celebre giornalista e studioso di scienze sociali, il commentatore conservatore del New York Times con la cui voce critica i liberal americani amano confrontarsi, analizza da tempo con crescente preoccupazione una crisi economica che considera quasi una crisi di civiltà: «Abbiamo speso, su tutte e due le sponde dell'Atlantico, risorse che non avevamo e ora non troviamo una ricetta credibile per riattivare la crescita, indispensabile per pagare i debiti.

Qui, in America, i repubblicani propongono un taglio delle tasse che non ci possiamo permettere e dal quale non credo che verrebbe un grosso sviluppo. E nemmeno lo stimolo della spesa pubblica in deficit proposto dai democratici è sostenibile e funzionerebbe. Purtroppo, col motore della crescita spento da una serie di vincoli strutturali - invecchiamento della popolazione, capitale umano stagnante, globalizzazione - siamo finiti in un vicolo cieco intellettuale».

Anche l'America teme l'impatto recessivo di una deflagrazione dell'euro. Obama incalza Angela Merkel, chiede ai tedeschi di fare di più per salvare i Paesi in difficoltà. Lei, invece, è solidale coi «frenatori» di Berlino.
«La Germania ha avuto grossi benefici dall'euro, lo so. Le banche si sono rafforzate e l'export è cresciuto grazie al basso valore della moneta unica. Alla fine anche Berlino accetterà misure straordinarie per salvare il mercato europeo e la sua valuta. Ma ho simpatia per i tedeschi: hanno fatto le cose giuste senza riempirsi di debiti, hanno gestito bene l'integrazione con la Germania dell'Est e hanno reso flessibile il mercato del lavoro con le riforme dell'era Schröder. Perché adesso dovrebbero caricarsi sulle spalle l'onere del salvataggio di Paesi - dalla Grecia all'Italia - che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità?».

Quindi lei è pessimista sul futuro dell'Europa.
«Meno delle scorse settimane. L'allentamento monetario in cambio di severità fiscale, la formula della quale si sta discutendo, mi pare che possa funzionare. Ma le incognite, legate alle incongruenze del processo di integrazione europea, rimangono tutte. Negli anni in cui ho vissuto a Bruxelles ho toccato con mano l'assenza di una cultura civica comune dell'Europa, di un modo di ragionare condiviso. Non credo che gli italiani accetterebbero un programma di austerity imposto dai tedeschi. Si ribellerebbero anche gli spagnoli o gli inglesi. Nell'emergenza si stringono i denti, ma, prima o poi, quella fase viene superata e la gente torna a votare. È quello il momento difficile».

L'Italia, come la Grecia, cerca di uscirne con un governo di tecnocrati competenti.
«Scelta comprensibile ma pericolosa. In America abbiamo avuto la stessa tentazione: davanti all'enorme debito pubblico che il Congresso non è stato capace di ridimensionare, molti hanno invocato l'intervento di una commissione di tecnocrati. Ma qui si tratta di riscrivere il contratto sociale. Per quanto doloroso, questo non può che essere un compito della politica. Delegarlo a un'élite tecnocratica è rischioso».

Senza sviluppo come sostieni il welfare? Lei di recente ha affrontato il tema, assai delicato, dell'elevato costo delle cure per i malati terminali. Pensa che quelle che fino a ieri chiamavamo le «società del benessere» taglieranno anche qui?
«Ci eravamo illusi di poter sconfiggere il cancro, ma queste malattie si sono rivelate più complesse del previsto. Più che guarigioni, otteniamo un prolungamento dell'esistenza, grazie a cure assidue. I dati su quello che si spende negli ultimi sei mesi di vita di questi pazienti sono spaventosi. Ci sono interi Paesi che rischiano la bancarotta per questo. Gli Usa sono uno dei candidati. Da noi l'anziano a reddito medio durante la sua vita lavorativa versa 145 mila dollari per il Medicare e ottiene cure e servizi per 435 mila dollari. La differenza la pagheranno figli e nipoti.

È insostenibile. Credo che dovremo riflettere e cambiare i nostri convincimenti morali sul momento estremo della vita: darci nuove regole etiche basate non solo sulla massimizzazione dei giorni di vita biologica. Conta anche la qualità della vita, il modo in cui la si lascia. Quando ho scritto l'editoriale al quale lei fa riferimento, ho avuto moltissime lettere, anche da malati terminali e dai loro congiunti. E quelli che volevano prolungare a tutti i costi la vita, anche di pochi giorni, erano quasi sempre i parenti, non i pazienti».

 

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