
IL DAZIO NON SERVE A UN CAZZO – L’AMBASCIATORE ETTORE SEQUI: “LA STRATEGIA AMERICANA HA LIMITI STRUTTURALI. I DAZI NON RISOLVONO IL RITARDO MANIFATTURIERO, E I GRANDI GRUPPI COME APPLE SPOSTANO LA PRODUZIONE DALLA CINA IN ALTRI HUB ASIATICI, NON NEGLI STATI UNITI. LA 'GUERRA LAMPO' TARIFFARIA DI TRUMP COZZA CON UN’INDUSTRIA GLOBALIZZATA CHE NON SI PIEGA A PROCLAMI” - “LA CINA RISPONDE CON UNA GUERRA DI POSIZIONE BASATA SU RESILIENZA, PAZIENZA STRATEGICA E UN APPARATO STATALE NON SOGGETTO A VINCOLI ELETTORALI. IN QUESTO SCONTRO, VINCERE NON SIGNIFICA ANNIENTARE L’AVVERSARIO, MA SOPRAVVIVERE SENZA CEDERE TERRENO DECISIVO…”
Estratto dell’articolo di Ettore Sequi per “La Stampa”
Per la Cina, la sfida è esistenziale: mantenere un livello accettabile di sviluppo economico, per evitare tensioni sociali, difendere il proprio sistema industriale e il rango di potenza globale.
Di fronte a tariffe superiori al 100%, Xi ha scelto la resistenza paziente. Egli confida nella vulnerabilità di Trump alle pressioni dei mercati finanziari e nel vantaggio offerto dal tempo. [...]
Trump [...] crede che una pressione incessante unita a lusinghe verso il “grande amico Xi” bastino a piegare Pechino. Ma per la Cina gli interessi strategici sono ben più profondi, e Trump non è considerato un interlocutore affidabile.
Il confronto è accentuato da una asimmetria strutturale delle due economie. La Cina ha [...] meno spazio per imporre dazi, ma dispone di un arsenale alternativo: restrizioni all’export di terre rare, ostacoli regolatori, svalutazione controllata del renminbi, sospensione selettiva di acquisti di prodotti agricoli, pressione su aziende americane operanti in Cina. E soprattutto la minaccia dell’ “arma nucleare finanziaria”: la vendita massiccia di Treasury bond. Anche solo evocata, può destabilizzare i mercati e colpire la fiducia globale nel dollaro.
METTI IL DAZIO TOGLI IL DAZIO - MEME SU TRUMP
Allo stesso tempo, la Cina è consapevole che non può più permettersi di dipendere da fornitori critici americani o da economie intermedie come Vietnam, Malesia o Filippine […] utilizzati finora per aggirare i dazi statunitensi e che gestiscono circa il 15% dell’export cinese indiretto. Se anche questi Paesi vengono colpiti da nuove tariffe, come accaduto negli ultimi giorni, si inaridisce l’intera rete logistica cinese.
La risposta non può limitarsi a ritorsioni. La Cina risponde con una riconfigurazione radicale: investimenti massicci, per 150 miliardi di dollari in semiconduttori e IA entro il 2030 e un riorientamento verso Sud globale ed Europa. L’interdipendenza, un tempo garanzia di stabilità, diventa vulnerabilità da superare.
Emergono anche contraddizioni ideologiche [...]. Gli Stati Uniti, patria del libero mercato, abbracciano un protezionismo muscolare per tutelare il “lavoratore americano”; la Cina comunista diventa baluardo del multilateralismo e della stabilità commerciale.
Trump vuole resuscitare l’industria americana; Xi difendere l’ordine globale del commercio. Questo paradosso segnala uno spostamento tettonico: le categorie del XX secolo si dissolvono, sostituite da una lotta per la ridefinizione delle regole globali. [...]
La via d’uscita dovrebbe essere una soluzione che consenta a XI di salvare la faccia e a Trump di dichiararsi vincitore. Dunque, un negoziato credibile dovrà estendersi oltre ai dazi e includere concessioni bilaterali su questioni strategiche: una de-escalation simbolica degli Stati Uniti su Taiwan –magari con concessioni semantiche sullo status dell’isola– potrebbe indurre Pechino a cedere su commercio o tecnologia; rapporti con la Russia, controllo delle tecnologie dual-use; regolamentazione dell’IA.
ettore francesco sequi foto di bacco
Ma la strategia americana ha limiti strutturali. I dazi non risolvono il ritardo manifatturiero, e i grandi gruppi come Apple spostano la produzione dalla Cina in altri hub asiatici, non negli Stati Uniti. La blitzkrieg (guerra lampo) tariffaria di Trump cozza con un’industria globalizzata che non si piega a proclami.
La Cina risponde con una guerra di posizione basata su resilienza, pazienza strategica e un apparato statale non soggetto a vincoli elettorali. In questo scontro, vincere non significa annientare l’avversario, ma sopravvivere senza cedere terreno decisivo.
Il commercio è ormai divenuto un campo di battaglia geopolitico dove si ridisegnano le fondamenta dell’ordine globale. Il rischio è che il prezzo di questa prova di forza sia insostenibile non solo per i due contendenti ma per un sistema internazionale sospeso tra interdipendenza e frammentazione.
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