MA QUANTO GODE FERRARA NEL SEMINARE ZIZZANIA TRA SCALFARI E MAURO? - BARBA-GENIO HA VINTO LA GUERRA DI ‘’REPUBBLICA’’, PER EZIOLO LA “BATTAGLIA DI ZAGREBELSKY” E’ STATA UNA DISFATTA - MA CHE CREDEVA IL DIRETTORE, DI POTERSI METTERE A “FARE CAMARILLA CON GENTE CHE SBERTUCCIA SCALFARI E NAPOLITANO COME “QUELLA MASNADA DI MEZZI FASCISTI E QUALUNQUISTI DI DESTRA” DEL ‘’FATTO”?’’ - “MONTI E NAPOLITANO NON SI TOCCANO, ALMENO FINCHÉ NON LO DICE SCALFARI…”
Giuliano Ferrara per "Panorama"
Per adesso l'hanno rabberciata, alla Repubblica, la guerra delle due personalità e delle due culture. Non so se sia vero che Eugenio Scalfari avesse minacciato di andarsene, forse sono i soliti pettegolezzi. Certo era arrabbiato. Ha una notevole e non proprio completamente ingiustificata considerazione della sua personalità di giornalista. I giornalisti, si sa, si prendono tremendamente sul serio.
Ha un'età , una gran barba numinosa, un sorriso di ragazzo, voglia di vivere e di lavorare e di influenzare il suo mondo. E che gli combinano? Il giornale da lui fondato, per la cui direzione quasi vent'anni fa ha scelto un professionista e cronista di Torino, della filiera della cultura azionista, intransigente, combattente, tutta pensiero e azione come dal riferimento al repubblicanesimo di Giuseppe Mazzini, una cosa così, un po' confusa, un po' ipocrita, ma un tempo non priva di un suo blasone di nobiltà , parlo di quelli che ce l'hanno sempre con l'Italia macchiata di sugo di salciccia, e portano sempre appeso al collo il bavagliolo dell'etica immacolata per difendersi dal popolo prima ancora che dal populismo, ecco, questo direttore, Ezio Mauro, si mette a fare camarilla, o almeno così sembrava, con gente che Scalfari lo sbertuccia e lo demolisce per una «questione morale».
«Non è un tuo amico e correligionario della democrazia delle élite dei miei stivali, questo Gustavo Zagrebelsky, il coautore con te di un libro sulla democrazia ingombrata dal suffragio universale? Come si permette di mordere alla giugulare in prima pagina Giorgio Napolitano e Mario Monti, un gran signore di Napoli e un tecnico milanese di frequentazioni europee che sono miei amici e gente di mondo come me, in compagnia di quel piccolo trotzkista romano che è Paolo Flores d'Arcais e di quel qualunquista di destra, quel Marco Travaglio che viene dal giornalino destrorso Il Borghese, che fa di professione il cane da guardia della Procura di Palermo con la quale va in vacanza, uno che s'è messo in testa di ereditare nientemeno che lo spirito di Indro Montanelli?».
Diciamo che il Fondatore non poteva essere più chiaro. Il giurista di regime e di lotta ha abbozzato, scrivendo su evidente richiesta di Mauro un pietoso elogio della sua stessa «ingenuità » prepolitica, e preparandosi come sembra a votare disciplinatamente per il Pd, e Mauro, con le cautele della dignità personale, ha scaricato il giurista, senza rompere l'amicizia, e i ragazzi del Fatto quotidiano, una masnada di mezzi fascisti annidati nella sinistra a nome della quale parla solo La Repubblica, così più o meno ha scritto meritandosi la reazione stizzita di quel giornale trattato con metodi correzionali.
Sono soddisfazioni, sono compensazioni. Ma in che tipo di giornale e di giornalismo poteva nascere una piccola tempesta così fatalmente rivelatrice? La Repubblica doveva essere il giornale delle nuove libertà civili degli italiani, un fattore di modernizzazione politica e culturale del Paese, magari un vettore di pluralismo e di ironia.
Nacque a metà dei Settanta con l'ambizione di replicare L'Espresso di Arrigo Benedetti e di Scalfari, e magari di portare alle masse il messaggio di tolleranza liberale e anticomunista, e di sprovincializzazione, del gruppo che si era raccolto intorno al Mondo di Mario Pannunzio e Benedetti, appunto. Nelle intenzioni di Scalfari e dei suoi sodali del tempo, il quotidiano tabloid era di area socialista, democratica, come il suo promotore.
Era amico del capitalismo innovatore e dei suoi quattrini, come il compianto principe Carlo Caracciolo e, di nuovo, il Fondatore, tutta brava gente, fantasiosa e creativa, non insensibile all'idea di un successo costruito sul commercio delle idee, che in certi casi viene prima della battaglia delle idee, e dipende dalla tua abilità nel carezzare il senso comune, e nel formarlo, di masse numerose chiamate attraverso un giornale-comunità a sentirsi parte di un gruppo di eletti che ha bisogno di copie come i partiti dei voti.
Il giornale-partito o giornale-tribuna, e le definizioni non hanno niente di sprezzante o di moralistico, incappò in un innovatore che proprio in quegli anni faceva una battaglia di minoranza assai spericolata. Si chiamava Bettino Craxi, era il leader milanese del Psi che non aveva avuto rispetto per il deputato socialista Scalfari, che era autoritario e autonomista, che non amava la dittatura delle lobby e della koinè democristiana e comunista nel suo partito.
Venne il caso Moro, venne il compromesso storico e poi la stagione di rottura inaugurata da un timoroso Enrico Berlinguer, che imbracciò la questione morale avendo perso la partita politica, e venne il braccio di ferro tra Craxi e Ciriaco De Mita: Scalfari avrebbe per natura parteggiato per l'avventura minoritaria e riformatrice di Craxi, ma per scelta e astuzia editoriale s'imbrancò con i democristiani, con i comunisti e con i giudici, a tutti loro garantendo la copertura civile della sua prosopopea liberale, alla quale i liberali di vero temperamento non hanno mai creduto.
Ne conseguì l'organo del conformismo di massa, il quotidiano che serviva a censurare, con l'agilità del vascello corsaro e poi con la possanza anche finanziaria e strategica di un Carlo De Benedetti, ogni possibile novità politica, fino alla lotta mortale contro Silvio Berlusconi, che oltre tutto si era a un certo punto messo sulla loro strada prendendosi con le brutte la Mondadori e per un certo periodo fece della allegra banda moralista, il cui capo si era venduto le azioni per fare la dote alle figlie (così scrisse Eugenio), un esercito di suoi dipendenti, uomini Mondadori-Fininvest (per dirla con il loro lessico antropologico).
Ma la vecchiaia ha le sue delizie. A Scalfari non va di compiere la sua missione nella malinconia di un ossessivo, e dunque ripetitivo, e dunque noioso, mantra moralista. La sua vera vena è politica, Monti e Napolitano non si toccano, almeno finché non lo dice lui.
E Mauro ha esagerato, lui così intrinsecamente piemontese, lui così legato alla fruttuosa ma malmostosa cronaca scandalistica degli anni del Cav, nel consentire a questi praticanti dell'antimafia cingolata di insozzare un circolo di amici che contano e che danno al vecchio Fondatore la sensazione di appartenere a una comunità repubblicana in tempo di crisi, invece che a una conventicola di firmaioli, in fregola di bellurie.
GIULIANO FERRARAEUGENIO SCALFARI E ezio mauro foto mezzelani gmt MAURO MORETTI MARIO MONTI AL MEETING DI CL DI RIMINI Giorgio Napolitano da giovaneGIORGIO NAPOLITANOGustavo Zagrebelsky foto La PresseLIBERTA E GIUSTIZIA GUSTAVO ZAGREBELSKY jpeg