NO-BAMA - IL FALLIMENTO DELL’OBAMACARE E’ IL COLPO DI GRAZIA AL MANDATO BIS DI BARACK. UN’ANATRA ZOPPA FINO ALLA FINE…

Mattia Ferraresi per "Il Foglio"

Lo sfaccettato disastro dell'Obamacare - che affratella fallimenti tecnici, politici, ideologici e d'immagine - è soltanto l'ultimo sintomo della crisi di leadership di Barack Obama. Per una diagnosi puntuale dell'entità del male occorre allargare lo sguardo e abbracciare il contesto in cui l'ultimo pasticcio presidenziale è andato in scena. "La presidenza Obama non è finita, ma sta fallendo" scrive sul Financial Times Edward Luce - non proprio un fiancheggiatore del Tea Party - constatando la pericolosa tendenza di Obama a "reagire politicamente" a qualunque problema.

Di fronte a una crisi il presidente rammenda, mette delle toppe, rimanda, aggiusta il tiro e nel frattempo tiene sempre un occhio fisso sull'uscita di sicurezza. Il presidente ha fatto della reazione agli eventi un metodo, e ora questa prudentissima navigazione di cabotaggio, piena di deviazioni e attracchi imprevisti, sta presentando il conto.

Quello dell'Obamacare è un caso di scuola: Obama ha fatto una promessa che non poteva mantenere - gli americani che avevano un piano assicurativo prima della riforma avrebbero potuto mantenerlo - e quando il problema è diventato ineludibile ha proposto l'ennesima pezza per decreto, subito bocciata nei fatti da una mozione repubblicana alla Camera alla quale hanno aderito anche 39 democratici. Gli stessi compagni di partito del presidente hanno anche un testo analogo pronto al Senato, iniziativa che riflette l'addensarsi delle paure democratiche in vista delle elezioni di medio termine nel 2014.

Le fuoriuscite ideologiche a sinistra del mainstream democratico, da Bill de Blasio alla senatrice Elizabeth Warren, impegnati in una lotta antisistema, segnalano il disagio di una compagine liberal che chiedeva a Obama più decisione nel riscrivere le regole di Wall Street dopo la crisi finanziaria che ha coinciso con l'inizio della presidenza.

Nei prossimi mesi il dipartimento del Tesoro dovrà occuparsi di mettere nero su bianco la riforma per arginare lo strapotere dei banchieri, e i liberal, ormai abituati al metodo Obama, cercano strade alternative. I dialoghi nucleari con l'Iran, innervati dalla costante dell'indecisione americana - e dalle tensioni con gli alleati, primo fra tutti il premier d'Israele, Benjamin Netanyahu, sono l'ultimo indizio della debolezza dell'America di Obama sul proscenio internazionale.

Dal Congresso repubblicani e democratici dicono ormai chiaramente che della riforma dell'immigrazione, altro catalizzatore delle residue speranze obamiane, si parlerà probabilmente tra un anno. L'impegno per restringere l'accesso alle armi da fuoco, promesso da Obama sull'onda della strage di Newtown, si è infranto sugli scogli del Congresso.

Tutte le riforme su cui Obama vorrebbe costruire la propria legacy sono compromesse o severamente annacquate da un processo politico che il presidente preferisce assecondare piuttosto che guidare. Il columnist conservatore Ross Douthat parla di "staus quo bias", una tendenza strutturale del liberalismo contemporaneo a ostacolare, invece che ad agevolare, le riforme, specialmente quelle che si propongono di sconvolgere l'assetto del welfare state.

Il rovinoso trascinarsi dell'Obamacare è documentazione potente della tendenza verso lo status quo. "Se Obama fosse in un altro sistema - scrive il britannico Luce - dovrebbe difendersi da un attacco alla sua leadership o affrontare elezioni anticipate. Ma dato che la Costituzione americana esclude questa possibilità, Obama rischia di diventare un'anatra zoppa permanente".

 

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