IL GRANDE ASSENTE DEL PROCESSO A PAOLO GABRIELE? MONSIGNOR VIGANÒ - TUTTI A IMPALLINARE IL “CORVETTO”, NESSUNO CHE ABBIA ASCOLTATO LE ACCUSE DELL’EX NUNZIO A NEW YORK, CHE NELLE SUE LETTERE DENUNCIÒ FURTI, INTERESSI DI ALTI PRELATI E CASI DI CORRUZIONE DENTRO LE MURA LEONINE - È L’UOMO CHIAVE DELLE INDAGINI: FURONO LE SUE AZIONI A ISPIRARE GABRIELE NELL’OPERA DI “PULIZIA”. EPPURE NESSUNO, NEANCHE LA DIFESA, LO HA CHIAMATO A TESTIMONIARE…

Marco Lillo per il "Fatto quotidiano"

C'era un grande assente ieri nella seduta fiume del processo a Paolo Gabriele: monsignor Carlo Maria Viganò. Il suo nome è stato solo evocato nella sala del Tribunale di piazza Santa Marta nell'imbarazzo del presidente Giuseppe Della Torre e del promotore di giustizia (il pm del Vaticano) Nicola Picardi, e subito rimosso.

L'assistente di camera del Papa che tutti continuano a chiamare Il Corvo alludendo a presunte torbide manovre mentre - per restare in tema di volatili - Gabriele sembra somigliare più a un piccione viaggiatore impallinato dai gendarmi vaticani, ha provato a porre all'attenzione della giustizia vaticana, le lettere nelle quali Viganò denunciava con nomi e cognomi furti, corruzione e altri misfatti.

Il maggiordomo non è riuscito a mettere nemmeno per un attimo al centro dell'attenzione dei magistrati e dei giornalisti la questione morale che il nome di Viganò suscita e che la Santa Sede rimuove. Il nome dell'ex segretario del Governatorato a piazza Santa Marta resta un tabù.

Il Vaticano , per non affrontare il tema posto dalle lettere di Viganò portate alla luce da Gabriele sembra interessato a troncare in fretta il dito per disinteressarsi della luna. Inizialmente la difesa di Paolo Gabriele aveva pensato di citarlo ma poi, probabilmente per non favorire un inasprimento del Tribunale Vaticano nei confronti dell'imputato, il difensore Cristiana Arru ha soprasseduto.

Così tra i testimoni ascoltati ieri nell'udienza più importante del processo, mancava il vero protagonista della vicenda, il monsignore moralizzatore che, con la sua rimozione, ha innescato involontariamente nella mente di Gabriele, la voglia insopprimibile di aprire le finestre per far vedere al mondo e soprattutto ai credenti quello che accadeva dentro le mura leonine.

Ieri sono stati sentiti dal Tribunale i gendarmi che hanno attuato la perquisizione nei confronti del segretario del pontefice, poi padre Georg Ganswein e anche la suora laica appartenente al gruppo delle quattro memores domini (aderenti a Cl che hanno pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza) e che assistono da qualche anno il Papa come una corte fedele.

Non c'era invece il convitato di pietra senza il quale l'istruttoria e la sentenza sembrano una pantomima: Carlo Maria Viganò. Chi si ricorda più di questo arcivescovo nato nel 1941 a Varese e che improvvisamente è stato promosso-rimosso al ruolo di nunzio a New York appena ha osato denunciare i furti e la corruzione nella Chiesa?

I giornali e le agenzie di stampa continuano a spendere fiumi di inchiostro sui nomi dei cardinali nominati di striscio ieri da Gabriele durante la sua deposizione: Paolo Sardi e Angelo Comastri, citati solo come persone che lo avrebbero suggestionato. Non complici, né ispiratori, ma solo persone con le quali Gabriele scambiava chiacchiere sconsolate sullo stato della Santa Sede probabilmente rafforzandosi poi nei suoi propositi di far qualcosa per cambiare l'andazzo Vaticano.

Mentre tutti cercano il mandante tra i porporati come un tempo si cercava il terzo livello della piovra mafiosa nelle fiction, nessuno si interessa dell'unico movente del maggiordomo: "la fase clou della raccolta dei documenti riservati è cominciata nel 2010-2011" ha detto Gabriele, cioè quando "è emerso il caso di monsignor Carlo Maria Viganò".

Così la figura dell'ex segretario del Governatorato è stata evocata nell'aula del tribunale. Gabriele ha spiegato: "la raccolta di documenti è andata avanti seguendo l'istinto, ho agito per lo stato d'animo e lo sconcerto per una situazione diventata insopportabile e diffusa ad ampio raggio in Vaticano".

Nessuno sembra interessato a capire qualcosa di più su questa situazione. Eppure i documenti sono sotto gli occhi di tutti, pubblicati da mesi dal Fatto e sul libro Sua Santità. Viganò era il segretario generale del Governatorato, l'ente che amministra tutti gli appalti della Città del Vaticano. Durante la sua gestione, i bilanci erano passati da un passivo di 8 milioni di euro a un attivo che secondo alcuni superava i 30 milioni di euro e secondo le stime più prudenti sarebbe comunque superiore ai 20 milioni.

Il risultato era stato raggiunto incidendo sulle rendite di posizione: si andava dai 550 mila euro spesi per il presepe che ogni anno viene installato in piazza San Pietro agli appalti dai costi esorbitanti per la cura delle ville pontificie e dei giardini della Città del Vaticano. Subito è partita la reazione, Viganò fu oggetto di attacchi sui giornali e poi di una manovra concentrica che mirava a screditarlo agli occhi del Papa. Il monsignore varesino cercò di reagire scrivendo prima al Segretario di Stato Tarcisio Bertone e poi al Papa. Tutto fu inutile. In quelle lettere descriveva una situazione inedita e sconvolgente. Viganò denunciava veri e propri furti, indicava interessi di alti prelati e persino casi di corruzione dentro le mura leonine.

IL Fatto ha pubblicato per primo la lettera più devastante scritta da monsignor Viganò quando il segretario generale pensava di potere trovare ascolto e comprensione da parte del segretario di Stato Tarcisio Bertone, il presidente del consiglio della Santa Sede. Viganò scrive a Bertone il 9 maggio 2011: "Su Mons. Nicolini (direttore dei Musei Vaticani, ndr) sono poi emersi comportamenti gravemente riprovevoli per quanto si riferisce alla correttezza della sua amministrazione, a partire dal periodo presso la Pontificia Università Lateranense, dove, a testimonianza di S.E. Mons. Rino Fisichella (presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione Ndr) furono riscontrate a suo carico: contraffazioni di fatture e un ammanco di almeno settantamila euro.

 

 

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