GUERRA ALL’ULTIMO BARILE - SE GLI USA DECIDESSERO DI CHIUDERE LO STRETTO DI HORMUZ (DOVE TRANSITA IL 20% DEL PETROLIO PRODOTTO NEL MONDO), STRANGOLEREBBERO L'IRAN, CERTO, BLOCCANDO IL 50% DELLE SUE ESPORTAZIONI MA PER L’OCCIDENTE SAREBBE UN RIALZO INCONTROLLABILE DEI PREZZI DEI BARILI E UN ULTERIORE AGGRAVARSI DELLA CRISI – UNA PARTITA CHE SI GIOCA SOPRATTUTTO A WASHINGTON IN DUPLEX CON LE PROSSIME PRESIDENZIALI AMERICANE…

Leonardo Maugeri per "l'Espresso"

Una nuova crisi petrolifera mondiale aleggia sul 2012, accompagnata da bagliori di guerra. Il 24 dicembre, mentre buona parte del mondo si preparava a festeggiare il Natale, l'Iran ha avviato la più imponente esercitazione navale nel Golfo Persico mai pianificata da Teheran, con test su nuovi missili a media gittata in grado di sfuggire ai controlli elettronici più sofisticati (fine 2011) e il lancio di missili a lunga gittata in grado di colpire Israele e le basi americane nell'area (il 2 gennaio).

Questi giochi di guerra hanno come teatro lo Stretto di Hormuz, un braccio di mare che separa la Penisola arabica dalle coste iraniane, attraverso il quale transitano via nave ogni giorno quasi 16 milioni di barili di greggio - il 20 per cento del petrolio prodotto nel mondo, il 30 per cento di quello esportato. Teheran ha minacciato di chiudere lo Stretto in caso di nuove sanzioni decise da Stati Uniti, Europa e altri Paesi.

La prova di forza del regime degli ayatollah e del presidente Mahmoud Ahmadinejad, in realtà, non mira a scongiurare l'inevitabile, cioè il varo delle nuove sanzioni, peraltro già irrigidite da Washington: con le sanzioni l'Iran convive ormai da molti anni e, in qualche modo, è sempre riuscito a aggirarle o a attenuarne gli effetti.

L'obiettivo iraniano è mandare un chiaro segnale di deterrenza di fronte a ipotesi punitive assai peggiori che circolano riservatamente nell'establishment degli Stati Uniti. Una su tutte si sta facendo strada: un blocco navale delle esportazioni di greggio iraniano operato dalla V Flotta statunitense nel Golfo Persico. In sostanza, una chiusura dello stretto di Hormuz al contrario, di cui pagherebbe il conto solo l'Iran.

Per molti democratici e per la quasi totalità dei repubblicani, questa è l'unica misura in grado di mettere in ginocchio l'economia dell'Iran, costringendo il Paese a rivedere i suoi piani nucleari. Circa il 50 per cento del prodotto interno lordo iraniano - in via diretta e indiretta - deriva dall'industria del petrolio, che garantisce anche l'80 per cento delle entrate valutarie del Paese. Non c'è dubbio che bloccare le esportazioni iraniane di oro nero equivale a strangolarlo.

Gli strateghi della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, inoltre, temono che se lo scenario peggiore si materializzasse e l'Iran fosse in grado di annunciare la realizzazione di un'arma atomica nel pieno della campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti (scenario a cui è difficile credere), il fronte democratico e lo stesso Presidente Obama ne riceverebbero un colpo esiziale.

Nelle ultime settimane, quindi, l'ipotesi del blocco navale è diventata oggetto di un serrato confronto e di crescenti pressioni sul presidente Barack Obama che, tuttavia, appare ancora recalcitrante, perché le conseguenze di un atto così estremo potrebbero essere devastanti. Da un lato, le prevedibili reazioni dell'Iran - anche di tipo terroristico - che potrebbero innescare una escalation militare incontrollabile; dall'altro, una nuova crisi petrolifera, con il petrolio che potrebbe schizzare alle stelle ferendo a morte le già incerte prospettive di ripresa dell'economia americana e mondiale.

Le reazioni iraniane, i possibili attentati terroristici a infrastrutture petrolifere e ad altri siti critici preoccupano, ma sono considerati gestibili. L'Iran è abbastanza isolato nel Medio Oriente (solo "l'odiata" Siria lo sostiene): non è amato dai Paesi arabi che lo circondano e temono le sue ambizioni nucleari.

Reggerebbe quindi con difficoltà ritorsioni militari via mare e aria. Teheran potrebbe cercare di infiammare le masse arabe con il richiamo alla difesa di un Paese islamico - ma non arabo - dall'aggressione del diavolo a stelle e strisce. Ma in caso di escalation militare, il regime rischierebbe l'implosione, non potendo controllare la marea di opposizione interna finora repressa brutalmente. Così, almeno, ragionano gli strateghi americani.

L'ipotesi di una nuova crisi petrolifera, invece, spaventa molto di più l'amministrazione statunitense. A dicembre si sono intensificate le consultazioni confidenziali di esperti per capire come il mercato petrolifero potrebbe reagire di fronte a un blocco navale delle esportazioni di greggio iraniano. Gli esiti non sono stati incoraggianti.

L'offerta mondiale di petrolio sta aumentando, la capacità produttiva cresce a tassi ancora più elevati mentre i consumi di oro nero languono, l'inverno è più caldo del previsto e l'economia mondiale traballa. Per le leggi dell'economia, tutto ciò dovrebbe comportare una sovrapproduzione petrolifera e un forte ribasso dei prezzi. Inoltre, le previsioni sull'andamento futuro del mercato continuano a rivelarsi sbagliate, poiché continuano a sovrastimare la domanda e a sottostimare l'offerta.

Questo implica l'esistenza di una capacità produttiva mondiale non utilizzata molto ampia - a dispetto di quanto sostenuto da molte fonti - in grado di far fronte all'eventuale perdita del greggio iraniano. Inoltre, paesi come Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi e altri ancora si sono già detti disponibili a immettere sul mercato tutto il petrolio che sono capaci di produrre in caso di embargo sul petrolio iraniano.

Ma il sistema petrolifero mondiale è fatto da due mercati: quello fisico, che pare non dar problemi, e quello finanziario, che di problemi ne presenta molti. È sul mercato finanziario che si formano i veri prezzi del petrolio, in base alle aspettative su quello che potrà essere il futuro. Le aspettative, a loro volta, sono influenzate dalla psicologia, dall'interpretazione dei segnali, dalle paure, e infine da fenomeni speculativi. Poco conta che il mercato fisico sia in equilibrio se il mercato finanziario teme che, di qui a poco, non lo sarà più per effetto dei tanti nervosismi che attraversano alcuni grandi Paesi petroliferi.

L'impatto di una crisi iraniana sulla psicologia collettiva del mercato finanziario, con ogni probabilità sarebbe quindi devastante, scatenando un rialzo dei prezzi incontrollabile. Alla successiva domanda: "Quanto potrebbe durare una simile crisi?", nessuno è in grado di rispondere. Se il mercato fisico funzionasse alla perfezione, potrebbe durare poche settimane.

Ma se qualcosa si inceppasse l'effetto-panico non sarebbe più controllabile. E una crisi petrolifera e economica di più lunga durata sarebbe inevitabile. Per certo il presidente Obama e la sua amministrazione vorrebbero scongiurarla, ma dovranno comunque essere pronti ad affrontarla.

Da anni la Marina statunitense ha preparato i piani per un blocco navale del Golfo Persico. Le nuove sanzioni contro Teheran permetteranno di guadagnare tempo alla Casa Bianca, ma lo faranno guadagnare anche a Teheran. Molto dipenderà dall'evoluzione della campagna elettorale, e da quanto la questione Iran peserà sullo scontro tra repubblicani e democratici. Nel frattempo, il 2012 dovrà convivere con lo spettro di una crisi di proporzioni mondiali, sperando che i bagliori di guerra e recessione rimangano isolati e infine si dissolvano. La spirale negativa avviata nelle ultime settimane, però, pare indicare che non sarà facile.

 

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