INGROIA, DOVE SCAPPI? - “IL FOGLIO” AZZANNA IL PM DELLA “TRATTATIVA” IN PARTENZA PER IL GUATEMALA: “DISERTORE!” - “NEL MOMENTO IN CUI INGROIA FUGGE DAL PROCESSO DELLA SUA VITA DICE A TUTTI CHE È CONVINTO CHE QUEL PROCESSO NON REGGERÀ DAVANTI AI GIUDICI. E PER QUESTO, LO ABBANDONA” - “HA UN SOLO MODO PER DIMOSTRARE CHE NON STA FUGGENDO DAL PROCESSO: REVOCHI LA DOMANDA PER IL GUATEMALA E LO AFFRONTI COME PM DEL DIBATTIMENTO…”

Alfredo Mantovano per Il Foglio

Nel procedimento penale sulla trattativa stato-mafia, c'è almeno un aspetto che non è stato sottolineato a sufficienza: ed è il fatto che il dottor Antonio Ingroia, il pm che più di altri ha condotto le indagini, per sua scelta non seguirà nel dibattimento lo sviluppo delle indagini che ha svolto.

Per sua scelta, senza ombra di dubbio; per un magistrato l'inamovibilità è una garanzia costituzionale e lo spostamento ad altre funzioni - nel suo caso, addirittura, il collocamento fuori ruolo - può avvenire solo per propria iniziativa. Ingroia ha confermato che è proprio questa la sua volontà il giorno di Ferragosto, in risposta ad Andrea Camilleri che lo aveva esortato a restare alla procura di Palermo; e in questo modo ha dissolto da sé scenari inquietanti da lui stesso evocati nelle settimane precedenti, quando aveva affermato di essere stato in qualche modo indotto ad andare in Guatemala perché era "diventato un bersaglio": quasi che lo stato italiano non sia in grado oggi di tutelare l'incolumità dei magistrati particolarmente esposti.

Andare fuori ruolo per infilarsi nella Commissione internazionale contro l'impunità in Guatemala è qualcosa che il diretto interessato, come hanno riferito varie fonti di informazione, ha chiesto nel mese di maggio e ha più volte sollecitato, fino a quando il ministro della Giustizia non ha dato il suo assenso e il Csm, poco più di un mese fa, non ha deliberato in modo definitivo.

Vi è un quesito al quale finora non è stata fornita risposta. Parte da una premessa: il pubblico ministero che svolge un'indagine importante aspira più di ogni altra cosa a seguirne l'esito in dibattimento. Col codice di procedura penale del 1989 le indagini preliminari non costituiscono un pacchetto chiuso, che aspetta solo la valutazione del giudice; esse rappresentano il punto di partenza del lavoro vero, quello della raccolta delle prove, che avviene in pubblica udienza e nel contraddittorio fra le parti.

Sostenere, come ha fatto Ingroia, "abbiamo chiuso", facendo riferimento alla avvenuta definizione delle indagini, significa lasciare il lavoro a molto meno di metà. Solo il pm che ha messo insieme, uno dopo l'altro, gli elementi che ritiene significativi nella prospettiva del giudizio è in condizione di padroneggiarli nel confronto dialettico con la difesa; è attrezzato a prevedere le obiezioni della controparte, a tenere qualche carta di riserva, in breve a impostare la battaglia conoscendo il proprio equipaggiamento.

Chi subentra nel dibattimento recita una parte di cui rischia di non conoscere a pieno gli snodi e le ragioni. Ciò vale per qualsiasi processo di peso: a tal punto che una norma del codice permette a chi ha svolto le funzioni di pm nel giudizio di primo grado di chiedere di esercitarle anche nel giudizio di Appello; a rimarcare la necessità di dare continuità, addirittura con la medesima persona fisica, alla prospettazione dell'accusa.

Figuriamoci per un processo come questo, al centro dell'attenzione mediatica e istituzionale da mesi, di tale rilievo da aver fatto scaturire un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta, su iniziativa del capo dello stato! Il quesito è allora il seguente: se tale è la logica del sistema penale, e prima ancora la logica tout court, perché Ingroia lascia il processo più significativo della sua vita?

A tale quesito ne sono collegati un altro paio, pur se distinti: perché il ministro della Giustizia e il Csm hanno dato l'assenso e deliberato in conformità alla scelta di Ingroia? Senza un minimo di vaglio critico, con una rapidità inusuale, il Csm in gran fretta in una delle ultime sedute di luglio, prima della sospensione feriale, con appena quattro voti contrari e due astensioni...

Non si dica che l'incarico in Guatemala è così importante da superare ogni altra considerazione. Con tutto il rispetto per la simpatica nazione del centro America, non è necessario dilungarsi tanto sul punto. Né si dica, come ha provato a fare lo stesso Ingroia, che nella procura di Palermo ci sono validi colleghi che sosterranno in modo adeguato l'accusa nel dibattimento: se non pesassero le considerazioni di sistema appena accennate, basta ricordare che uno dei magistrati che hanno seguito le indagini, il dott. Paolo Guido, ha rifiutato di apporre la propria firma sulla richiesta di citazione a giudizio, in compagnia del procuratore capo Messineo, che pure di quelle indagini è stato costantemente informato, e che è al vertice dell'unico ufficio giudiziario con una struttura realmente gerarchica.

I colleghi di Ingroia saranno anche validi, ma in questo giudizio sono fra loro spaccati; il che renderebbe la permanenza di Ingroia ancora più necessaria, per non disperdere l'impostazione accusatoria da lui così fortemente voluta (al punto da non condividerla col suo capo). E allora, perché Ingroia se ne va? Non è un interrogativo intimistico o introspettivo.

E' una domanda che ha una evidenza pubblica non eludibile. Alla quale si può tentare una risposta aggiungendo un altro tassello: a fine luglio Ingroia inserisce in un dibattito già incandescente qualcosa di cui nessuno fino a quel momento aveva parlato. Evoca il segreto di stato, chiedendosi se sulla trattativa esista una ragione di stato che impedisca l'accertamento della verità.

Dov'è la stranezza? Il pm che mette su una indagine vuole raggiungere l'obiettivo; l'interposizione del segreto di stato preclude ciò, ma - nei rari casi in cui è opposto - segue all'iniziativa del governo, non all'espressione del timore di un magistrato. Se l'analogia non è irriverente, Ingroia somiglia al ragazzino che vuole mostrarsi forte, provoca gli altri, ma poi, quando si tratta di passare alle vie di fatto, dice agli amici "tenetemi"...

Se lui chiama in causa il segreto di stato, cui - è bene ripeterlo - nessun indagato o testimone del procedimento sulla trattativa fino a quel momento aveva fatto cenno, non si limita a un personale allontanamento dal procedimento, ma prefigura (auspica?) un blocco del giudizio medesimo.

Quello che emerge, senza illazioni o forzature, è che Ingroia, dopo essersi dedicato a questa indagine con intensità e con mezzi cospicui, giungendo a intercettare il capo dello stato, dopo aver realizzato una costruzione giudiziaria così ardita e impegnativa, ha deciso che il lavoro è definitivamente concluso: "Abbiamo chiuso", ha detto più di una volta, dopo la scelta guatemalteca.

Ciò che ha fatto Ingroia lo iscrive alla schiera dei magistrati, per lo più pm - una schiera ristretta ma con grande incidenza -, per i quali l'obiettivo non è arrivare a una sentenza. E' lanciare ipotesi di ricostruzioni storiche, è sollecitare un forte dibattito mediatico, è animare un'altrettanto forte polemica, è assumere l'abito della vestale della verità: al di là delle regole, ma anche al di là dell'unico passaggio - il giudizio dibattimentale - che l'ordinamento pone per capire se l'accusato è colpevole o se è innocente.

E' una schiera che ha regalato all'Italia indagini piene di arresti eccellenti ed eclatanti e naufragi dibattimentali, o addirittura - prima ancora - proscioglimenti istruttori. Nel momento in cui Ingroia fugge dal processo della sua vita (e, in più, "spera" che qualcuno improvvidamente apponga il segreto di stato), dice a tutti che è convinto che quel processo non reggerà davanti ai giudici: lo dice lui, coi suoi comportamenti, non è la maliziosa illazione di terzi. E per questo lo abbandona.

Glielo contestano le vittime delle stragi del '93, quando criticano pesantemente la sua decisione di andare in Guatemala, parlando di una "frenata su tutto il fronte". Alla fine, lo ammette lui stesso: nella risposta alle ragionate perplessità di Giovanni Pellegrino sulle colonne dell'Unità, egli scrive che "nessun reato di ‘trattativa' è stato a oggi contestato nell'indagine di cui si discute"; e aggiunge che le imputazioni di falsa testimonianza agli ex ministri puntano a capire se costoro hanno effettivamente "trattato" e non lo vogliono riconoscere. E' un profilo giudiziariamente basso, che fa da contraltare a un calore mediatico e istituzionale elevatissimo.

Il "paradosso Ingroia" non si riduce però a una sua vicenda personale. E' il segnale - probabilmente il più serio fra quelli registrati finora - di una anomalia di sistema. Può il sistema giudiziario tollerare i costi finanziari di una indagine complessa e del dibattimento che sta per iniziare, i costi umani - che in questo caso si sono manifestati nel modo più tragico - e istituzionali correlati, in vista di un esito che la fuga del pm che ha messo su tutto questo preannuncia come fallimentare?

Si può immaginare di accertare giudizialmente non delitti imprescrittibili - l'omicidio di un magistrato: non è questo l'oggetto del processo sulla trattativa - ma discutibili scelte di governo, qualificate come criminali, vent'anni dopo, con larga parte dei protagonisti che non ci sono più? E si può pensare di fare ciò, mandando a gambe all'aria la repressione della mafia di oggi?

Non lancio accuse a vuoto. Mentre erano in corso le discussioni su Ingroia, ha avuto una eco mediatica incomparabilmente minore una polemica esplosa all'interno della procura di Palermo per iniziativa del procuratore aggiunto Teresa Principato. La dott.ssa Principato ha pubblicamente lamentato che, mentre - attraverso i Ros - coordinava le indagini finalizzate alla cattura del più significativo capomafia rimasto in circolazione, Matteo Messina Denaro, la procura di Agrigento ha chiesto e ottenuto (con l'assenso del procuratore di Palermo Messineo) l'arresto di una decina di presunti mafiosi, fra i quali Leo Sutero, di Sambuca di Sicilia, ritenuto uno degli uomini più vicini a Messina Denaro: era sotto stretta osservazione da mesi, nella prospettiva di arrivare al suo capo, e ovviamente il suo arresto, secondo il procuratore aggiunto, ha pregiudicato il bottino più grosso.

Ciò è accaduto a fine giugno, ma ancora pochi giorni fa il pm Principato ha parlato di una "indagine compromessa dalla dirigenza della procura" (di Palermo), di lavoro durato due anni e mezzo, con 70 uomini del Ros impegnati quotidianamente, e andato "in fumo", e così via. Si inseguono i fantasmi di vent'anni fa e si lascia impunita la mafia di oggi: per certificazione degli addetti ai lavori, non per maldicenza di qualche politico.

Se esiste l'anomalia, va affrontata e risolta. Il conflitto di attribuzione, nella sua rilevanza in virtù delle parti coinvolte, non può che essere il punto di avvio; e sarà compito - c'è finalmente da augurarselo - della prossima legislatura. C'è un nodo che però adesso va definito. Il dott. Ingroia riterrà legittimamente che il mio ragionamento sia del tutto infondato.

Ha un solo modo per dimostrare che non sta fuggendo dal processo sulla "trattativa": revochi la domanda per il Guatemala e lo affronti come pm del dibattimento. Proceduralmente è possibile: quante volte il Csm è tornato indietro sulle proprie delibere, passate anche dal plenum, per un ripensamento del diretto interessato... Sia tranquillo, solo a lui è venuto in mente il segreto di stato, e quindi nessuno ne disporrà l'opposizione.

Dimostri con un comportamento concreto, e non con le troppe parole finora spese, che è convinto della fondatezza delle accuse che ha mosso; che cioè la sua "creatura" non è già abortita. Andare in Guatemala significa sancire che il lavoro che ha svolto finora è stato solo un tentativo mal riuscito di ricostruzione di un pezzo di storia, ma non qualcosa di più impegnativo e serio: un processo penale.

 

 

ingroia PRIMO PIANO DI ANTONINO INGROIA ANTONINO INGROIA E FRANCESCO MESSINEO NICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANO jpegANDREA CAMILLERI LA SEDE DELLA PROCURA DI PALERMO 99 Bibli 05 GIOVANNI PELLEGRINOBoss Matteo Messina Denaro - L unica foto di lui dal vivo

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