E MAMMA’ ACCOMPAGNA IL “PUPO” ANCHE AL TEST DI MEDICINA…

Francesco Piccolo per il "Corriere della Sera"

Alla Fiera di Roma, per il test d'ingresso alla facoltà di Medicina dell'Università Cattolica, c'erano ieri oltre ottomila candidati. Ma la notizia vera è stata un'altra: le operazioni per dare il via ai test sono state lunghe e difficili, a causa del numero enorme di persone che si accalcavano. Erano soltanto gli ottomila candidati? No, molti di più. C'erano, ad accompagnarli, i genitori. Uno, o anche due per ogni candidato. Non tutti, forse - o tutti?

Ora, provate a immaginare la stessa scena in un qualsiasi altro Paese vi venga in mente. Forse i candidati non sarebbero ottomila, forse sì. Ma i genitori non ci sarebbero. Già qualche mese fa, il Corriere ha raccontato che soltanto noi italiani accompagniamo i bambini a scuola. Negli altri Paesi, vanno da soli. È uno dei modi per farli diventare indipendenti, per dar loro responsabilità e coscienza di essere degli individui. Si parlava di scuola elementare e media.

Ma noi italiani non ci limitiamo a questo, noi andiamo ad accompagnare i nostri figli anche al test universitario, nel momento in cui è palese (dovrebbe esserlo) il distacco dalla vita familiare, dalle regole casa-scuola. In molti altri Paesi è il momento dell'allontanamento definitivo da casa; l'inizio - sia simbolico sia concreto - della vita adulta. In Italia, se pure bisogna staccare il cordone, i genitori vogliono presiedere fino all'ultimo momento.

Non si tratta soltanto di fare compagnia, o di una questione pratica (accompagnare i figli da altre città). È di più: significa essere presenti nel momento della fatica e della tensione emotiva, per caricarle tutt'e due sulle spalle forti degli adulti esperti. I genitori, per la maggior parte, seguono figli maggiorenni fino alla porta d'ingresso della Fiera, per sottrarre loro la sofferenza, e prendersela tutta. Quindi, chiamarlo atteggiamento protettivo è perfino una riduzione della realtà.

E infatti alcuni di loro, ieri, dichiaravano di essere più tesi dei loro figli. Non si sa se era vero, ma avevano di sicuro un gran desiderio di esserlo. In ogni caso, in questo modo, hanno creato problemi di ordine pubblico e hanno ritardato l'inizio degli esami. Però i genitori non vogliono sentire ragioni, quando si tratta di proteggere i loro figli.

Si stanno caricando tutta l'emotività, quindi sono ipersensibili. Ritengono che essere genitori voglia dire mostrare costantemente un eroismo, vuol dire mettere il proprio corpo davanti al corpo dei figli e dire al rettore della facoltà: uccidi me, lascia vivere lui.

Ormai non fa più impressione il rapporto tra posti a disposizione, nel lavoro e nelle università, e quantità sproporzionata di candidati. All'uscita dal liceo, gli studenti cominciano un tour in varie università e in varie città, anche all'estero, nel tentativo di riuscire a essere ammessi alla facoltà che rappresenta il lavoro che vorrebbero fare.

Con questi numeri, succede solo a pochi; altri provano in altre facoltà, con altri possibili futuri. La carriera universitaria, e quella lavorativa che segue, ancora sfocata, sono diventate frutto di una casualità: un test riuscito, un altro sbagliato, e ti succede di vivere in una città e di aspirare a un lavoro che nemmeno avevi immaginato.

Di fronte a tutto questo, l'emotività dei genitori è lievitata, negli ultimi anni, a causa della difficoltà che crea il numero chiuso nelle facoltà, a causa della richiesta debordante. In fondo, il genitore italiano tipico pensa che tutti debbano aspirare ad accedere alla facoltà che preferiscono, ma il loro figlio ne ha tutti i requisiti. Il loro figlio è più uguale degli altri. È per questo che fanno la fila insieme a lui, aspettano mangiandosi le unghie per ore, trovano ingiusto che non passi il test, e urlano che sono tutti raccomandati.

Se poi il loro figlio entra nella facoltà di Medicina (o in qualsiasi altra) seguono lo studio con apprensione, proprio come quando doveva imparare a leggere e scrivere in prima elementare. E chiedono subito dopo l'esame: quanto hai preso? E il tuo amico quanto ha preso? Perché non solo deve essere bravo, ma deve essere più bravo del collega con il quale ha studiato. Poi, a un certo punto, una sera, a tavola con gli amici, con aria complice ed esasperata dicono: ma 'sti ragazzi, quando si decidono ad andare via da casa?

 

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