LAVORA PRO NOBIS - IL MODELLO “FLEXSECURITY”, CHE RENZI SOGNA DI ADOTTARE IN ITALIA CON I CONTRATTI A TUTELE CRESCENTI, E’ COSTOSISSIMO E PREVEDE INVESTIMENTI PER IL REIMPIEGO E “JOB CENTER” - IN ITALIA SERVIRÀ SOLO A PERMETTERE ALLE AZIENDE LICENZIAMENTI PIÙ FACILI

1 - NUOVI CONTRATTI, RENZI SUPERA L’ART. 18

Paolo Baroni per “la Stampa

 

RENZI POLETTI
RENZI POLETTI

Detto fatto. Dopo l’affondo di Matteo Renzi, martedì in Parlamento, ieri il governo ha depositato in Senato l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro. La modifica apre di fatto la strada al superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che disciplina i licenziamenti senza giusta causa: le nuove assunzioni a tempo indeterminato, in un futuro prossimo, verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio.

 

Rispetto alla versione precedente del testo, che indicava questa come una delle possibili opzioni, adesso la nuova formulazione è più netta e prevede esplicitamente «per le nuove assunzioni» il nuovo modello contrattuale.

 

RENZI POLETTI
RENZI POLETTI

In pratica un neo-assunto, come un disoccupato che dovesse trovare un nuovo impiego, non avrà da subito diritto alle stesse tutele garantite dagli attuali contratti stabili, ma le otterrà gradualmente. E in caso di interruzione del rapporto avrà diritto ad un indennizzo tanto più alto quanto più lunga sarà stata la durata del suo contratto.

 

susanna camussosusanna camusso

«Dobbiamo dare regole che siano sostanzialmente uguali per tutti», ha ripetuto ieri il presidente del Consiglio durante la sua visita alla redazione de La Stampa a Torino. E poi occorre prestare più attenzione nei confronti delle donne: «Oggi non tutte le lavoratrici hanno la maternità. Dobbiamo garantirla anche a chi ha la partita Iva o a chi non è coperto dalle casse delle categorie».

 

Per il premier il modello da seguire è quello della flexsecurity danese, non certo quello spagnolo fatto di salari bassi e disoccupazione al 25%, per cui intervenire sull’articolo 18 significa anche prendersi cura del lavoratore nel momento in cui esce dal mercato del lavoro. «Noi dobbiamo lanciare un messaggio chiaro a investitori e mercati finanziari. Il concetto di fondo è che noi dobbiamo liberare la possibilità di assumere e, per chi non ce la fa, non avere le rigidità che ha avuto il mercato del lavoro fino a oggi».

landinilandini

 

Le novità, scaturite al termine di una riunione mattutina governo-maggioranza che sembra aver messo tutti d’accordo, prevede a tutti gli effetti un forte intervento di semplificazione della disciplina dei contratti di lavoro, e la revisione di altri due punti particolarmente delicati dello Statuto, dal superamento del divieto (art. 4) delle tecniche di controllo a distanza all’articolo 14, che introduce di fatto la possibilità di demansionamento da parte delle aziende.

 

Si ipotizza poi l’introduzione, «anche in forma sperimentale», del compenso orario minimo per subordinati e collaboratori dei settori non regolati dai contratti collettivi. Come pure la possibilità di estendere a tutti i comparti produttivi il voucher finora destinato alle prestazioni di lavoro accessorio (colf, baby sitter ecc) «aumentando gli attuali limiti di reddito».

 

DISOCCUPATIDISOCCUPATI

L’emendamento al «Jobs act», ha spiegato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, «punta a rendere possibile una rapida approvazione del disegno di legge delega». Sia il presidente della commissione Lavoro, Maurizio Sacconi (Ncd), che il vice Stefano Lepri (Pd), confermano che a questo punto il cammino della legge dovrebbe essere in discesa nonostante i 60 subemendamenti (nessuno a firma Pd).

 

Ai sindacati, dalla Cgil alla Fiom sino alla Uil, le novità invece non piacciono e già si parla esplicitamente di possibili mobilitazioni unitarie. Più cauto Bonanni della Cisl che si dice pronto a scioperare, ma per «far sentire la voce dei sindacati sui crisi, fisco e pensioni».

 

Tranchant invece Susanna Camusso: «L’articolo 18 rappresenta uno scalpo per i falchi dell’Unione europea». La stretta decisiva è attesa per oggi, quando l’emendamento andrà in votazione in commissione Lavoro. L’approdo in aula è previsto per martedì 23, mentre il voto finale è atteso per i primi di ottobre. Ieri Renzi ha insistito di nuovo molto sul fattore-tempo. Per lui «entro il 15 ottobre deve essere chiaro qual è l’iter normativo». Altrimenti scatta il decreto.

 

2. COSTOSO, EFFICACE E SEVERO: ECCO IL MODELLO CHE PIACE ALL’ITALIA

Tonia Mastrobuoni per “la Stampa

 

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione.

 

Sacconi e Cicchitto Sacconi e Cicchitto

Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa.

 

L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori. E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo.

 

In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre l’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani.

 

La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

 

ICHINOICHINO

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus.

 

Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.

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