LA MOSSA DEL CANGURO! - UNA MATASSA DI FOLLIA E DI AVANSPETTACOLO IN SENATO PER TAGLIARE 1.400 EMENDAMENTI – ‘’GRASSO ZERBINO” - I GRILLINI SFOTTONO IL PIDDINO RUSSO, (“FACCE IL CANGURO”) E IL SENATORE SI METTE A SALTARE
Mattia Feltri per “La Stampa”
Quando poi lo aboliranno, se lo aboliranno, sarà una perdita per il mondo dell’intrattenimento: dove lo si troverà un estroso della portata di Francesco Russo (Pd), che porta il titolo di senatore, imitare il canguro con tanto di saltello rivolto ai cinque stelle? Ce ne si accorge - e sono le sette e mezzo di sera, si è seppelliti lì dentro dalla mattina - perché dai banchi offesi si alza il ruggito tragicomico: «Fa il canguro! Fa il canguro!».
E sarebbe un ingegnoso sberleffo perché è al canguro, inteso come tecnica parlamentare, che Piero Grasso ricorre dopo tre ore e mezzo di guerriglia sul voto segreto, così da accelerare i tempi. È anche difficile mettere in file le cose: troppe, un viluppo, una matassa di follia, un tumulto serrato, un conflitto digrignante fra muri di gomma.
Dei quarti d’ora per accusarsi a vicenda: voi lo fate perché siete servi del governo, e voi lo fate per conservare la sedia. E dire che l’inizio pareva un approccio alla concordia, con Vannino Chiti che s’alzava ad accogliere l’appello del premier: distingueva fra opposizione e ostruzionismo, fra dissenso e scontro di fazioni. Si può chiudere a settembre, diceva.
Non sarebbe traumatico, rispondeva Luigi Zanda, il gran capogruppo del Pd. D’accordo i forzisti, d’accordo i popolari, Scelta civica. Restavano fuori Lega, Movimento cinque stelle e Sel, e saltava su Loredana De Petris a centrare il punto: ci chiedete di ridurre gli emendamenti, ma noi non sappiamo con chi dobbiamo parlare, con voi o col governo?
E cioè: la riforma la trattiamo qua dentro o la tratta Renzi sui suoi tavoli? E in tal caso, diceva con apprezzabile senso dell’umorismo, bisognerebbe convocare Silvio Berlusconi in audizione così finalmente sentiremo che diavolo contiene il patto del Nazareno.
Ma le cose sono andate come si diceva, fra sordi per niente muti. In gran sintesi: ritirate gli emendamenti e vi daremo qualcosa; dateci qualcosa e ritireremo gli emendamenti. La riunione dei capigruppo non ha portato soluzioni e nel pomeriggio si è partiti con la trattazione delle modifiche. Un calvario. Anzi, una guerra sporca.
In pratica: Sel ne aveva presentata una un po’ furbina, che conteneva l’elezione a suffragio universale del nuovo Senato (il vero obiettivo), la parità di genere, i diritti delle minoranze linguistiche. E su quest’ultimo punto il presidente Grasso aveva deciso di consentire il voto segreto. E così a porcata, porcata e mezzo perché Rita Ghedini chiedeva di spacchettare il comma delle minoranze linguistiche, votarlo subito e così far cadere la segretezza del voto sull’emendamento intero. Si può, dicevano dal Pd. Non si può, dicevano grillini e leghisti, e altroché, lo hanno proprio intonato: «Non si può / non si può».
Botte sui libroni degli emendamenti. Seduta sospesa, seduta ripresa. Altre urla, cori. Grasso non teneva più l’aula, si è messo a bisticciare con chiunque, si è preso una quantità di insulti (zerbino, servo, fascista, sveglia...) che forse nemmeno tutti insieme gli altri presidenti del Senato repubblicano. I leghisti si sono applicati al parlamentarismo agonistico: Sergio Divina si è lanciato sotto i banchi della presidenza, trattenuto dai commessi, mentre diceva a Grasso tutto quello che pensava di lui; Raffaele Volpi riusciva a raggiungere il presidente e gli si metteva a fianco, dritto come una sentinella, e non se ne sarebbe andato se non avesse ottenuto la parola.
L’etichetta del giorno è stata applicata in perfetto agio pure da Zanda, uomo una volta di gran garbo che sta subendo una curiosa mutazione somatica: le folte ciglia sono calate sugli occhi sempre più scuri, la mascella serrata, ciuffi di capelli che scendono dalle tempie, potrebbe essere un cattivo di Charles Dickens e infatti si è alzato furente, gutturale, intimidatorio, a gridare a Grasso che così non si andava da nessuna parte, che interrompere i lavori parlamentari è atto fra i più gravi, «io la invito a usare tutti gli strumenti consentiti!».
Se ne sono andate tre ore e mezzo. Con questo emendamento e con quello dopo, preciso identico. Era come giocare a tennis contro il muro: la pallina torna sempre indietro. Per dire, si è alzato Renato Schifani a chiedere ai cinque stelle perché avessero tanto caro il voto segreto (per ingolosire i dissidenti, naturalmente) visto che urlavano come ossessi quando poi riuscirono a impedirlo sulla decadenza di Silvio Berlusconi; e la risposta è stata: e perché a te invece il voto segreto è diventato tanto antipatico?
È la logica lungo la quale ormai si muove il Senato, anzi lungo il quale salta, in delirio, come il canguro voluto dalla presidenza: quando finalmente si è votato (e bocciato) l’emendamento di Sel, Grasso ha applicato la norma secondo cui sono caduti altri mille e 400 emendamenti uguali o molto simili. Il glossario cui si è attinto per manifestare il disappunto è immaginabile. E l’effetto era stato ben descritto in aula da Sandro Bondi, ritornato sui banchi dopo il volontario esilio: «Se fossi un cittadino che assiste ai nostri lavori, penserei che il Paese è allo sfascio e che noi siamo incapaci di tirarlo fuori».
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