1. NELL’ITALIA DEI POTERI MARCI SI CELEBRA SUI GIORNALONI UN MESCHINO ‘’LIGRESTI CHI?” 2. LA VERITÀ SULL’INGEGNERE DI PATERNO’ IN “ODORE DI MAFIA” CHE ENRICO CUCCIA E CARLO DE BENEDETTI “SDOGANARONO” PER PRIMI ATTOVAGLIANDOLO NEI PIÙ ESCLUSIVI E PRIVATI “SALOTTI DELLA FINANZA”: MEDIOBANCA-GENERALI-EUROLAX-FONDIARIA E CIR-COFIDE 3. E BASTA CON LA “FAVOLETTA” CARA ANCHE A CESARONE ROMITI CHE I “RAPPORTI D’OPPORTUNITA’” TRA CUCCIA E DON SALVATORE LIGRESTI NASCONO AI TEMPI DELLA PRIVATIZZAZIONE DI MEDIOBANCA (1988), QUANDO DATANO ALMENO DAL 1971 AL MOMENTO DELLA DIFESA DI BASTOGI DALL’ASSALTO DELL’ALTRO SICILIANO TERRIBILE MICHELE SINDONA 4. DON SALVATORE FU MOLTO DI PIU DI UN “FELPATO PLENIPOTENZIARIO” DELLO GNOMO DI MEDIOBANCA CHE ALLE SEI DI MATTINA LO CHIAMA PER CHIEDERGLI CONSIGLI DOPO L’ARRESTO DEL NUMERO TRE DELLA FIAT MATTIOLI. E CON LUI SI VA VIVO PURE GIANNI AGNELLI

Tina A. Commotrix per Dagospia

La viltà e l'ingratitudine, amava ripetere la grande giornalista Oriana Fallaci, sono "bestie sempre in agguato". Pronte a ferirti a morte soprattutto quando dagli altari si finisce nella polvere (per via giudiziaria).

Così, nella Milano del cardinal Borromeo ancora una volta "crolla e rovina tutto ciò che sopra ci viene innalzato". E le parole del santo sembrano ben attagliarsi nell'assistere alla triste e tragica parabola dell'imprenditore di Paternò, Salvatore Ligresti.

L'ex Re del Mattone appena arrivato all'età di ottantadue anni che finisce in bancarotta trascinando nell'avventura (e in galera) l'intera famiglia e viene dimenticato da chi, soprattutto, l'aveva temuto, riverito e glorificato.

Crolla e rovina tutto ciò che sopra ci viene innalzato...
Per stare in epoche non lontane dalla nostra e sempre all'ombra della Madonnina (ingrata), già ai tempi del crack Sindona era accaduto che, da un giorno all'altro, il suo discusso protagonista, Michele Sindona, fu degradato in Borsa e nei titoli dei giornali locali da "grande finanziere milanese" a "bancarottiere siciliano".

La storia di veder rinnegato il proprio nome (e l'onore presunto) si ripete così con la caduta rovinosa dei Ligresti. Anche se il suo patriarca Salvatore - sarebbe un dovere ricordarlo ai lettori senza assumerne alcuna difesa d'ufficio -, è ancora un detenuto in attesa di giudizio. E non un criminale condannato da un'aula di tribunale in primo grado come viene rappresentato dai media vili i cui addetti ai livori facevano la fila fuori la porta dei suoi collaboratori per lesinare un alloggio nella Torre Velasca di Milano (da Tabacci all'ex prefetto Ferrante, passando per il figlio di La Russa) o tra i palazzi dell'immenso patrimonio assicurativo di Sai-Fondiaria (gli Alfano di via delle Tre Madonne a Roma).

Un Lor signore, dunque, che fino a poco fa era temuto (se non di più) e rispettato nei Palazzi della politica e nelle istituzioni come a piazza Affari; nel sistema bancario, sempre prodigo e puntuale di prestiti nei suoi confronti, come tra i "pattisti di sindacato" che si coccolavano e si teneva buono l'amicuzzi di lunga data Enrico Cuccia.

E la pubblicistica dell'ultimo regime (in carica) dovrebbe smetterla una volta per tutte di raccontare la "favoletta" - vergognosa ma buona per allontanare eventuali sospetti sulla loro ferrea colleganza -, che i due siciliani, Ligresti e Cuccia, si sarebbero conosciuti - casualmente e nella saletta Vip dell'aeroporto di Fiumicino -, soltanto alla vigilia della privatizzazione dell'istituto nel 1988.

Cioè, che la solida "familiarità" di Don Salvatore con l'imperturbabile Gnomo - che impose di mantenerlo nel board di Mediobanca anche quando l'ingegnere di Paternò era recluso a San Vittore (tre mesi) -, sia dovuta, appunto, all'opera d'intercessione svolta dall'ex Re del Mattone con il suo amico Bettino Craxi.

Un intervento discreto quello di Ligresti sul segretario del Psi, per convincerlo a non ostacolare il passaggio dell'istituto di proprietà delle banche pubbliche (Iri-Bin) ai soliti Lor signori della privatistica.

Una moral suasion che sicuramente c'è stata e che ha avuto pure buon esito nonostante quel controverso passaggio politico-economico abbia avuto diversi protagonisti (a cominciare da Antonio Maccanico) e complicati percorsi istituzionali.

Ma la vulgata perpetrata negli anni dalla pubblicistica, resta una "favoletta" che faceva comodo all'establishment e ai media paludati per nascondere la verità scomoda sotto il tappeto sporco dell'ipocrisia. Con quel Ligresti che, a sentire i suoi detrattori, era in affari con la mafia.

Fuori da ogni dietrologia maligna, infatti, è noto che sin dal lontano 1971 - insomma ben prima della privatizzazione di Mediobanca -, Enrico Cuccia si "alleò" con Salvatore Ligresti. Quel Don Totò di Paternò che muoveva a fatica i primi passi nel mondo della finanza milanese conosciuto grazie all'amicizia condivisa con il suo avvocato storico, Antonino La Russa. Il papà dell'ex missino Ignazio.

E l'occasione di quel primo approccio fatale fu quando l'altro siciliano terribile, Michele Sindona - con "i soldi cosa nostra" secondo i suoi accusatori -, stava dando l'assalto alla roccaforte Bastogi, considerata allora il più illustre, ricco e influente dei "salotti buoni" della finanza.

Ecco cosa scrive il saggista Giancarlo Galli nel volume "La fabbrica dei soldi" (Mondadori, 2000) sul legame tra gli isolani approdati nel dopoguerra a piazza Affari: "In terra di Sicilia affondano le radici parecchi nomi illustri della finanza italiana di questo dopoguerra: nell'ordine, Michelangelo Virgillito, Michel Sindona, il clan della famiglia Ligresti e lo stesso Enrico Cuccia. E spicca il nome di un paesino: Paternò (Catania), famoso per i suoi agrumi....".

No, la "favoletta" del lupo cattivo in odore di mafia (Ligresti) che nel bosco degli affari incontra fortuitamente (un aereo in ritardo per Milano..., racconterà a "il Mondo" l'ingegnere nell'unica intervista concessa) l'agnellino Cuccia ha sempre fatto sorridere anche l'ex capo dello Stato, Francesco Cossiga.

E poco si è scritto (e approfondito) pure dei rapporti tra il Diavolo Sindona e il Santo Cuccia prima dell'insanabile rottura avvenuta sull'affare Bastogi e sullo strano ritrovarsi tra i due al "Pierre" di New York nel pieno della bufera giudiziaria del crack Finambro. Una vicenda altrettanto drammatica che porterà all'assassinio dell'avvocato-curatore Ambrosoli e al suicidio nel carcere di Voghera del suo mandante, Michele Sindona.
Corsi e ricorsi, dicevamo.

Già, Don Salvatore chi? sembrano chiedersi adesso i giornaloni dei Poteri marci e Lor signori della finanza e dell'imprenditoria. Gli stessi che per oltre trent'anni hanno assistito all'ascesa dell'ingegnere siciliano.
L'ex palazzinaro straccione che partendo dalla vendita di un sottotetto in zona Tortona nel giro di qualche stagione fortunata si è trasformato nel potentissimo Mister 5%. Almeno così raccontano le scarne biografie.

L'omino discreto e silenzioso con la passione per il mattone che tra i suoi maestri d'opera aveva avuto il compaesano ed ex venditore di cravatte Michelangelo Virgillito che al giovane e intraprendente Totò d'inizi carriera aveva suggerito: "Compra quello che gli altri scartano", negli anni Ottanta può fare finalmente il suo ingresso nei "salotti buoni" dell'alta finanza: Mediobanca, Pirelli, Impregilo, Generali, Gemina, Cir&Cofide, Rcs, Aeroporti di Roma...

A parte la numerosa figliolanza esuberante e smaniosa di apparire pure nelle vicende mondane messa a capo della sue attività con poteri in realtà assai limitati e sotto la stretta sorveglianza dei suoi manager di fiducia (Tallarico, Marchionni, Erbetta), Don Salvatore continuerà però a mantiene un profilo basso anche se Gianni Agnelli l'invita a colazione a Villar Perosa e Cesare Romiti porta figli, nuore e nipoti nella tenuta di campagna dei Ligresti alle porte di Roma.

Nel suo libro di memorie l'ex amministratore della Fiat e di Rcs insiste nel sostenere la "favoletta" che non c‘erano rapporti d'amicizia o altro tra Cuccia e Ligresti, "ma solo opportunismo".

Appare tuttavia davvero inconfutabile che dagli anni Settanta in poi (se non prima) la strana coppia di siciliani Cuccia & Ligresti abbia intrattenuto un rapporto, stretto e fiduciario ("un plenipotenziario felpato", secondo Giancarlo Galli) su molte eventi anche i più delicati e spregiudicati.

Forse Romiti non è a conoscenza che fu Cuccia alle sei del mattino a comunicare a Don Salvatore la notizia ferale dell'arresto del suo braccio destro alla Fiat, Francesco Paolo Mattioli?

E che, qualche ora dopo che il manager era stato rinchiuso a San Vittore fu lo stesso Avvocato a contattare l'ingegnere di Paternò per interessarsi alla dolorosa vicenda?
E perché nel 1993, passato appena un anno dall'uscita dal carcere (preventivo) per le tangenti alla metropolitana milanese, per rafforzarsi in Generali lo Gnomo di via Filodrammatici chiama proprio la Finsai International (gruppo Sai) di Salvatore Ligresti per un aumento di capitale (dal 6,95% al 10,7%) nella misteriosa scatola lussemburghese Euralux-Lazard che opera dal 1973 Gran Ducato?

Uno "scrigno" finanziario, costituto sull'onda dell'antica amicizia, datata 1956, tra Cuccia e André Meyer, l'ex patron di Lazard, e ben custodito nel Gran Ducato, che tra i suoi presidenti ha avuto, oltre ad Antonio Bernheim, uno dei manager più vicini all'Avvocato, Gianluigi Gabetti.

Se non si fosse fidato del suo "felpato plenipotenziario" appare improbabile che il presidente onorario di Mediobanca e l'amministratore delegato, Vincenzo Maranghi, potessero coinvolgere il chiacchierato Don Salvatore in una manovra tanto delicata allo scopo -come sempre - di conservare il proprio potere sul Leone di Trieste.
O no?

Che poi l'ingegnere di Paternò sia stato ricompensato dalla merchant bank oggi guidata da Pagliaro&Nagel con il rifinanziamento dei debiti della sua Premafin che già allora ammontavano a oltre 1500 miliardi di vecchie lire sembra fa parte dei "giochi sporchi" che per decenni si sono praticati in Mediobanca e sotto gli occhi compiacenti dei giornaloni dei Poteri marci.
Non ultimo il "papello" firmato da Alberto Nagel a favore della famiglia Ligresti (45 milioni di euro di buonuscita) per effetto del passaggio della Sai all'Unipol di cui si sta occupando la magistratura.

Dall'umile Paternò al ricco Lussemburgo, insomma, la strada lunga percorsa da Don Salvatore è stata sempre in salita.
Tra alti e bassi.
Tutto ha inizio a Milano con l'ingegnere che eredita un pacchetto di azioni Sai di proprietà della Fiat da Raffaele Ursini. L'ex ragioniere anche lui venuto dal Sud che con la complicità del solito Virgillito riesce a conquistare la Liquigas per finire ben presto anche lui in bancarotta.

Poi, grazie al sostegno pieno e convinto della Mediobanca di Cuccia e Maranghi, arriva la grande scalata ai vertici dei Poteri marci non prima di aver superato qualche incidente di percorso: accusa di peculato (1978); il rapimento della moglie Bambi (1981); lo scandalo delle "aree d'oro" (1987).
"Spunta la stella Ligresti", può finalmente titolare "la Repubblica" di Eugenio Scalfari nel giugno del 1987.

Già, perché dopo Enrico Cuccia sarà proprio l'editore del gruppo Espresso-Repubblica, Carlo De Benedetti, a "sdoganare" Don Salvatore nel Ghota della finanza.
Benvenuto in Paradiso sembrano strizzargli l'occhio sia i Poteri marci sia i soliti media di riferimento.
"Nell'anno di grazia della Cir" come scrivono i giornaloni, nell'holding industriale del Carlo De Benedetti (presidente l'ex ministro delle Finanze, il repubblicano Bruno Visentini), fa ingresso a pieno titolo la Sai della famiglia Ligresti con il 2%. E può consentire al suo patriarca di sedersi a pieno titolo nel consiglio d'amministrazione.

Un rapporto con la finanza di Carlo De Benedetti che si consoliderà di lì a poco.
Nel 1989 Ligresti sposta la sua partecipazione, raddoppiandola al 4,5%, dalla Cir alla Cofide.
La "cassaforte" che controlla il gruppo guidato da Carlo De Benedetti.

Neppure al mitologico Leopoldo Pirelli o all'ex genero Marco Tronchetti Proverà, tanto per fare un esempio, succederà mai di essere azionista di "scrigni" di famiglia così ricchi e riservati rappresentati da Cofide (De Benedetti) o Euralax (Mediobanca-Agnelli).

E' davvero un peccato, allora, che nella sua brillante e documentata Ligresti&story apparsa su l"la Repubblica" di sabato scorso, l'eccellente Alberto Statera sorvoli sul ruolo avuto anche dal suo editore Carlo De Benedetti nell'accreditare il discusso Mister 5% nel "cuore del capitalismo familistico delle scatole cinesi".

Del resto, per dirla con un proverbio siculo caro a Don Salvatore e citato dallo stesso Statera: A' megghiu parola è chidda ca ‘un si dici".

 

 

SALVATORE LIGRESTI OLD STYLE SALVATORE LIGRESTI OLD STYLE LIGRESTI E DALEMA LIGRESTI DE BENEDETTI AGNELLI CUCCIAqq LIGRESTI CON MARCHIONNI IL PAPELLO TRA NAGEL E LIGRESTI GUIDO CARLI E SALVATORE LIGRESTI GERONZI PONZELLINI E LIGRESTI COPERTINA DE IL MONDO CON SALVATORE LIGRESTI ligresti salvatoreSALVATORE LIGRESTI E MASSIMO PINI Salvatore e Jonella Ligresti

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