PARLA LA 007 USA: “IL SISMI DI POLLARI NON VOLEVA RAPIRE ABU OMAR. BERLUSCONI ERA CONTRARIO. LA CIA HA FATTO TUTTO DA SOLA. VOGLIAMO LA GRAZIA”

Maurizio Molinari per "la Stampa"

«Mi sono dimessa dalla Cia, adesso posso parlare sulla "rendition" di Abu Omar». Sabrina De Sousa è il primo degli agenti della Cia condannati dalla Cassazione per il sequestro di Abu Omar a scegliere di parlare con un giornale italiano.

L'intenzione è far conoscere agli italiani come ha vissuto in questi anni, ricostruire le responsabilità del sequestro dell'imam egiziano avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003 e descrivere «gli errori commessi dall'America e dall'Italia in questa vicenda» per appellarsi al Quirinale affinché «chiuda un capitolo triste nella storia delle due nazioni, estendendo il perdono dato al colonnello Joseph Romano a tutti gli agenti coinvolti». Lo fa citando documenti, testimonianze dirette e documenti che ha trovato negli archivi del governo degli Stati Uniti.

Come ha passato gli oltre dieci anni trascorsi dalla rendition?
«Appena tornata negli Stati Uniti, iniziarono le indagini, il mio nome uscì e temetti molto per la mia famiglia, che si trova in India. Pensavo solo a loro, mio padre era malato di tumore e io avevo difficoltà a raggiungerlo. Non potevo attraversare l'Europa a causa dei mandati italiani. Un sabato seppi che stava morendo.

Presi un volo dagli Stati Uniti per l'India che faceva tappa a Parigi, sapevo di rischiare, mi andò bene ma arrivai troppo tardi, era agli ultimi attimi di vita. È stato un costo umano alto. Eravamo molto legati anche dalla fede cattolica: quando nel 1986 Giovanni Paolo II, primo Papa nella storia, visitò l'India, fu mio padre a disegnare una delle strutture religiose, alta 7 piani, create per l'occasione».

Perché si è dimessa dalla Cia?
«Dopo la morte di mio padre, mia madre era rimasta in India da sola, volevo andare a trovarla per Natale ma la Cia me lo ha impedito. Mi disse che non potevo andare all'estero perché avrei messo in pericolo la sicurezza di altri agenti. Allora chiesi di far venire mia madre. Feci la richiesta a luglio per Natale, mi risposero a gennaio: "Non è possibile". Non solo: diedero disposizione al nostro ambasciatore a New Delhi di non autorizzare il mio ingresso nel Paese dove avevo la mia famiglia. È stato il momento in cui ho compreso che volevano me ne andassi. Così ho fatto, ora le dimissioni sono pubbliche».

Che cosa significa non poter transitare per l'Europa?
«È un danno soprattutto per le possibilità di trovare lavoro, date dalla mia esperienza e dalle lingue che conosco».

Com'è iniziato tutto questo?
«Nel 2002, mentre ero a Milano come diplomatica, partecipai come interprete a una missione Cia-Sismi per indagare su Abu Omar. Fu il mio unico coinvolgimento, perché quando vi fu la "rendition", in febbraio, ero in settimana bianca con mia figlia. Ma tanto è bastato per farmi includere negli americani coperti da immunità che sono stati condannati dalla Cassazione».

Perché la Cia decise il rapimento di Abu Omar a Milano?
«Fu Jeff Castelli, capostazione a Roma, a proporlo. Cercava promozioni all'interno della Cia. Nel dopo 11 settembre era una maniera per mettersi in luce».

Quale fu l'approccio di Castelli all'operazione?
«Una "rendition" veniva autorizzata se il personaggio portava una minaccia alla sicurezza e veniva arrestato dal Paese dove si trovava, che lo consegnava agli Usa. Queste erano le regole. Ma tali requisiti non c'erano perché su Abu Omar non c'erano mandati di cattura, neanche in Egitto. La Digos lo teneva sotto controllo e le autorità italiane non avevano intenzione di arrestarlo».

Come fa a esserne così sicura?
«Castelli parlò diverse volte con Nicolò Pollari, capo del Sismi, per convincerlo a fare l'operazione, e Pollari gli disse sempre di no perché non c'erano i motivi e il Parlamento non aveva ancora approvato i nuovi poteri per i servizi. Anche Robert Seldon Lady, capostazione a Milano, era contrario».

Perché Lady si opponeva?
«Era in contatto con Bruno Megale della Digos, che gli aveva detto della sorveglianza su Abu Omar. La Digos gli stava addosso, non era in grado di portare minacce imminenti alla sicurezza».

Come fece Castelli a superare le obiezioni di Pollari?
«Disse al quartier generale di Langley che Pollari non si opponeva. Non c'era un'autorizzazione scritta, come avrebbe dovuto essere, ma riuscì a farsi credere. La richiesta arrivò ai vertici, a George Tenet, e da lui a Condoleezza Rice cui spettava parlarne al presidente Bush. Fu così che venne approvata».

Non vi furono contatti diretti fra Bush e Berlusconi sulla «rendition» di Abu Omar?
«No, perché gli italiani non volevano farla. Pollari, il governo Berlusconi, erano contro. In particolare Berlusconi temeva che la vicenda avrebbe ulteriormente compromesso i suoi già precari rapporti con i giudici».

È possibile che Castelli abbia avuto l'avallo italiano e lei non l'abbia saputo?
«L'autorizzazione scritta italiana alla rendition non esiste. Dunque nel migliore dei casi Castelli diede una propria interpretazione a ciò che gli venne detto da Pollari. Non sarebbe dovuto bastare, in base alle regole vigenti».

Come risolse Castelli il problema che l'arresto dell'imam dovevano farlo gli italiani?
«Lo affidò al carabiniere Luciano Pironi, noto come Luttwig, promettendogli di aiutarlo a farlo lavorare nei servizi segreti. Luttwig fermò Abu Omar facendogli vedere la tessera della polizia e lo portò nella vettura dove lo prese in consegna il team della Cia, che lo portò nella base di Aviano e da lì fino in Egitto».

Dunque, Castelli faceva pressione su Pollari mentre Lady parlava di Abu Omar con Megale della Digos...
«Sì, e quando Pollari seppe che la Digos teneva sotto sorveglianza Abu Omar, ebbe un motivo in più per opporsi alla rendition, visto che c'era un'indagine in corso. Scoprimmo così che Sismi e Digos non si parlavano, proprio come avviene fra Cia e Fbi».

Insomma, la rendition di Abu Omar avvenne in violazione delle regole stabilite dalla stessa amministrazione Bush...
«Esatto. Abu Omar non era pericoloso, l'Italia si opponeva e dunque la rendition non sarebbe mai dovuta avvenire. La Cia invece l'ha eseguita, su forte pressione di Castelli sui vertici, innescando molte conseguenze negative».

Ce ne dica una...
«La Cia ha perso credibilità, perché ha visto cadere il capo di un servizio alleato come Pollari senza muovere un dito per salvarlo. Cosa credete che abbiano pensato gli altri capi dei servizi alleati davanti a un simile comportamento?».

Resta il fatto che lei è stata condannata in maniera definitiva dalla giustizia italiana, assieme ad altri 22 americani. Cosa pensa di fare?
«Io sono vittima di due tipi di errori, quelli commessi dall'America nell'eseguire la rendition e quelli commessi dall'Italia nel perseguirla con la giustizia».

Qual è l'errore che rimprovera alla giustizia italiana?
«Di averci perseguito e condannato nonostante fossimo tutti coperti dall'immunità. È stata una decisione grave. L'Italia ha stabilito un precedente internazionale: è possibile violare l'immunità dei diplomatici».

Vi sono state delle conseguenze nei rapporti fra servizi?
«Sì, il governo italiano ha dimostrato di non saper proteggere l'identità di agenti alleati. Ma il problema è anche a un livello diverso: oggi ogni diplomatico straniero in Italia sa di non essere tutelato dal governo che lo ospita».

Che cosa dovrebbe fare l'Italia?
«Il Quirinale ha concesso la grazia a Joseph Romano, l'unico militare condannato assieme a noi diplomatici. Dovrebbe estenderla anche a noi, contribuendo così a chiudere questa triste pagina dei rapporti fra Italia e Stati Uniti, disseminata di errori di entrambi».

Perché crede che Joseph Romano sia l'unico a essere stato graziato dal Quirinale?
«Se guardiamo allo sviluppo della rendition, non ha alcun senso. Lui, militare ad Aviano, è meno coinvolto di me che stavo in settimana bianca con mia figlia? Il motivo è un altro. L'Italia, graziando Romano, ha voluto stabilire un precedente pensando ai due marò detenuti in India, ovvero suggerendo la soluzione della grazia per i militari.

Ma poiché conosco bene l'India, essendo nata da un inglese e un'indiana, credo che questa strada non funzionerà. In India due pescatori uccisi da militari stranieri sollevano emozioni forti. La questione andava risolta subito, senza farla diventare una vicenda di orgoglio nazionale».

Se non arriverà la grazia dall'Italia, lei che cosa farà?
«Il mio legale ha presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo. È solo in primo passo, ne faremo altri».

In questi dieci anni ha visto o sentito Jeff Castelli?
«No, non l'ho mai cercato. È stato però lui a farlo, quando ha saputo che avevo deciso di dimettermi dalla Cia. Mi ha lasciato un messaggio sul cellulare e non l'ho richiamato. Non ha nulla da dirmi che sia nel mio interesse».

 

de sousa SABRINA DE SOUSA ABU OMAR CIAJeff CastelliNICOLO POLLARI sismi nicolo pollari lapROBERT SELDON LADY GEORGE W BUSH CON GEORGE TENET DIRETTORE CIA ALL EPOCA DEL RAPIMENTO ABU OMAR jpegBerlusconi e Bush

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