PSYCO-ACT – IL VOTO DI FIDUCIA SCATENA SCENEGGIATE E CRISI DI COSCIENZA – VOLANO REGOLAMENTI E SPUNTANO MONETINE, MENTRE TOCCI SI DIMETTE DA SENATORE E FASSINA DICE CHE È L’ULTIMA VOLTA CHE FINISCE COSÌ
1.”IL VOTO DI FIDUCIA SCATENA IL SENATO. RENZI: SCENEGGIATE”
Alessandro Trocino per “il Corriere della Sera”
renzi affacciato da palazzo chigi con maglietta bianca
Lanci di regolamenti e monetine consegnate in segno di scherno ai ministri; senatori che si dimettono e senatori espulsi che si barricano nell’Aula; scontri con i commessi, colluttazioni tra parlamentari, insulti, cori, rabbia. Una giornata campale che finisce nella notte con l’agognato voto di fiducia sul Jobs act: i sì sono 165, contro 111 no, due gli astenuti. Un voto seguito con apprensione per tutta la giornata dal premier Matteo Renzi, impegnato a Milano nel vertice europeo sull’occupazione: «Le reazioni di una parte delle opposizioni sono più sceneggiate che politica — spiega —. I nostri senatori potranno aspettare ancora qualche ora, ma porteremo a casa il risultato come ci siamo detti di fare. Accadrà e accadrà stanotte».
Il clima si accende in tarda mattinata quando il presidente del Senato Pietro Grasso espelle dall’Aula Vito Petrocelli durante l’intervento del ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Il capogruppo M5S è reo di aver sventolato un foglio bianco, «come la delega al governo», e di essersi avvicinato al ministro consegnando delle monete. «Gli ho dato 30 centesimi — riferisce poi — dicendogli di tenere i soldi per le “tutele crescenti” dei miei due figli». Il ministro stava spiegando che «l’articolo 18 non è l’alfa e l’omega della nostra riflessione».
Continuerà poi: «Il governo vuole eliminare il reintegro ex articolo 18 per i licenziamenti economici e sostituirlo con un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità».
La sospensione della seduta non entusiasma il premier, che vorrebbe accelerare i tempi. Nel pomeriggio il ministro Maria Elena Boschi chiede la fiducia, con l’atteso maxi emendamento che sostituisce il Jobs act. Lega e 5 Stelle contestano ancora. Si apre il fronte interno del Pd: 27 senatori e 9 deputati firmano un documento nel quale annunciano la fiducia, ma sono molto critici sul testo e chiedono di cambiarlo alla Camera.
In Transatlantico si discute animatamente ma ci si svaga anche. Il 5 Stelle Andrea Cioffi si fa fieramente fotografare (seguito a ruota da Roberto Calderoli) insieme a Gregorio De Falco, il comandante del «salga a bordo!» di Schettino. Mario Mauro, dei Popolari per l’Italia, passeggia con un simbolico Maalox in bella vista. Si torna in Aula e ricomincia la bagarre. Violenta lite tra la capogruppo sel Loredana De Petris e il pd Roberto Cociancich: «Lui mi ha dato del fascista, non ci ho più visto». Ne fa le spese Emma Fattorini (Pd): «Se l’ho colpita è stato per sbaglio, con il ciondolo del bracciale». Volano anche un fascicolo di emendamenti e un regolamento del Senato, che sfiorano il presidente Grasso.
Nella notte, si va finalmente al voto. Forza Italia si sfila. Giovanni Toti annuncia: «Occasione persa, votiamo convinti contro la fiducia».
2. “I RIBELLI NELL’ANGOLO MA TOCCI SI DIMETTE”
Monica Guerzoni per “il Corriere della Sera”
«È l’ultima volta che finisce così, la prossima o si ottiene qualcosa di concreto o si va fino in fondo». Dove il fondo, nei ragionamenti ultimativi di Stefano Fassina, è la crisi di governo. Il premier-segretario ce l’ha fatta, ma la minoranza del Pd è allo stremo, stanca di procedere «con la pistola alla tempia» e provata, come si lasciano scappare i più inquieti, dalle «pressioni che piovono dall’alto».
È vero che ai dissidenti in odore di voto contrario è stata indicata la porta del Pd? E che i vertici del gruppo avrebbero minacciato di espulsione anche quelli tentati di uscire dall’Aula al momento del voto? Il capogruppo Luigi Zanda non nega di aver parlato chiaro ai suoi: «Beh, sì... Ho detto loro che il voto di fiducia è un voto di appartenenza».
Bivio drammatico per i dissidenti, che al verdetto sul Jobs act sono arrivati in ordine sparso. La minoranza ha cercato l’unità, ma l’ha trovata solo nella necessità di salvare il governo Renzi per salvare l’Italia. I bersaniani si sono ricompattati con un documento molto critico, firmato da 27 senatori e nove deputati.
I cuperliani, per marcare una posizione ancor più dura, si sono rifiutati di sottoscriverlo. E i civatiani, dopo ore di confronto, non hanno trovato la quadra. Sergio Lo Giudice vota sì. Felice Casson, Corradino Mineo e Letizia Ricchiuti lasciano l’Aula. La stessa idea era stata accarezzata dai bersaniani, che però su questa linea non hanno raggiunto un accordo.
Il gesto più forte lo compie Walter Tocci, votando al governo una fiducia obbligata dallo stato in cui versa l’Italia e però, subito dopo, dimettendosi da senatore: «I progetti raccontati ai cittadini non corrispondono ai testi che votiamo in Parlamento. Nella legge delega non c’è scritto che cancelliamo l’articolo 18...». Perché si dimette? «Perché è l’unica via di uscita al dilemma di conciliare due principi opposti, la coerenza con le mie idee e la responsabilità verso il Pd e il governo».
Riunioni a raffica, crisi di coscienza e conferenze stampa improvvisate. Quella dei «27» avviene in piedi, parlamentari schierati davanti alle telecamere e Cecilia Guerra che spiega «luci e ombre» del provvedimento: «La fiducia crea un grave cortocircuito istituzionale che alla Camera non si potrà riproporre. Però alcune correzioni introdotte erano contenute nei nostri sette emendamenti».
Per Miguel Gotor «i passi avanti sono insufficienti, l’ambiguità sull’articolo 18 è gigantesca». Il bersaniano assicura che «la battaglia continuerà alla Camera» e difende il documento: «Viste le doppie pressioni esercitate da un premier che è anche segretario, non è facile tenere 27 persone su una posizione così». Maria Grazia Gatti prevede scontro duro a Montecitorio: «In commissione Lavoro c’è Damiano, lì i democratici azzannano».
Ecco infatti, pochi metri più in là, spuntare gli onorevoli Zoggia, Fassina e D’Attorre, venuti a raccogliere il testimone. «Basta ricatti, alla Camera cambieremo il testo», chiama alle armi D’Attorre. C’è sofferenza, rabbia, ci sono i dubbi di Erica D’Adda («I nostri figli andranno a lavorare con la telecamerina in testa?») e i tamburi di guerra di Fassina: «Dobbiamo raccogliere più forze possibili...». Perché allora anche Epifani, Stumpo, Amendola e la Campana hanno firmato e Bersani no? Nessun mistero, assicura Gotor con una battuta calcistica: «O c’è Platini, o c’è Furino».