"IL RITORNO DI RENZI A PALAZZO CHIGI? SOLO SE IL PD AVRÀ PIÙ DEL 30%" - NEL PD SI FANNO I CONTI PER DELINEARE LA GRIGLIA DEI FUTURI PREMIER: "SE NON SARA' COSI' FORTE, RISCHIA DI ESSERE SPEDITO A CASA AL PRIMO STARNUTO DI UN ALLEATO" - CON I DEM SOTTO IL 30% SPAZIO A GENTILONI, MINNITI O DELRIO
Alberto Gentili per “il Messaggero”
Non è un caso che lo scontro tra Marco Minniti e Graziano Delrio abbia avuto un seguito di veleni. Ora che il sistema elettorale maggioritario è alle spalle e si comincia a navigare nelle acque incerte del proporzionale, lo schema seguito dal 1994 al referendum del 4 dicembre scorso finisce in archivio.
In base alle leggi elettorali ereditate dalla due sentenze dalla Consulta, quelle con cui con ogni probabilità si andrà a votare - come ha confermato il coordinatore dem Lorenzo Guerini al Messaggero - nella prossima primavera si avranno un leader forte e un risultato chiaro, solo e soltanto se il Pd o i Cinquestelle (i due partiti in testa nei sondaggi), o un'improbabile listone Forza Italia-Lega-Fdi, supereranno la soglia del 40% alla Camera riuscendo a mettere la mani sul premio di maggioranza.
Quello che garantirebbe l'autosufficienza a Montecitorio. E comunque chi vincerà dovrà raggranellare una maggioranza in Senato, dove la soglia e il premio non sono previsti. Peggio andrebbe se in autunno venisse riesumato l'accordo sul sistema tedesco: un proporzionale purissimo senza incentivi di governabilità.
«DECIDO IO» Ecco, allora, che Matteo Renzi, ma anche Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Angelino Alfano e gli altri leader, hanno ormai (non senza fatica) cominciato a metabolizzare l'idea che dopo le elezioni di primavera sarà necessario un governo di larghe intese. E che, probabilmente, non sarà il segretario del partito più votato a fare il premier. A varcare la soglia di palazzo Chigi saranno, come accadeva nella Prima Repubblica, altri esponenti politici. «In questa eventualità sarò però io a decidere il nome. Non mi farò incastrare in manovre di palazzo», ha già messo le mani avanti Renzi parlando con i suoi fedelissimi.
Una frase dedicata a Minniti, osannato da gran parte del centrodestra per le sue politiche legge e ordine sui flussi migratori. E con ottimi rapporti con Sergio Mattarella, di cui quando il Presidente ha fatto il vicepremier o il ministro, è stato più volte sottosegretario (prima alla presidenza del Consiglio, poi alla Difesa). Ma anche a Paolo Gentiloni, cui Renzi è legato da fiducia e amicizia. «Tra i due c'è un rapporto leale, è però evidente che Paolo ha preso gusto nel lavoro che fa...», dice uno stretto collaboratore del segretario, cui non è passata inosservata l'ultima intervista al Tg1 di Gentiloni: nel festeggiare i buoni dati della produzione industriale (più 5,2%) il premier ha parlato del lavoro di otto mesi del suo governo e non dei mille giorni dell'esecutivo Renzi.
Il segretario del Pd non ha comunque gettato la spugna. Punta ancora alla premiership. Tra i suoi, con il leader in vacanza, si ricorda come «Angela Merkel faccia la cancelliera e guidi un governo di coalizione» con la Spd, «anche senza avere la maggioranza assoluta» nel Parlamento tedesco. Segue postilla: «Replicare in Italia questo modello sarà possibile se il Pd supererà la soglia del 30%. Ecco, con un 32-33%, Renzi sarà abbastanza forte da poter pretendere di andare a palazzo Chigi senza il rischio di essere spedito a casa al primo starnuto di un alleato».
Se invece - sempre in caso di vittoria - il bottino del Pd fosse inferiore, per Renzi andare al governo «comporterebbe il rischio di bruciarsi», dice una fonte autorevole dem. «Ci troveremmo a governare con partiti, gelosi e rancorosi, con cui abbiamo appena combattuto la campagna elettorale. Meglio, molto meglio, spedire a palazzo Chigi qualcuno di fiducia che possa avere anche il sì degli altri partiti della futura maggioranza». Gentiloni, Minniti, Delrio, apprezzato dal mondo cattolico. Più difficilmente Dario Franceschini che Renzi non ama, ma che Berlusconi e Alfano stimano.
PERICOLI & INSIDIE Il rischio di durare poco, se non pochissimo, è consistente. I governi di legislatura (o di lunga durata) con il ritorno del proporzionale finiranno nei libri di storia. Nella Prima Repubblica - osservano al Plebiscito e al Nazareno - la vita media è stata di meno di un anno (48 governi in 46 anni), con record tipo quello del primo esecutivo Andreotti rimasto in piedi appena 9 giorni. Era e sarà difficile la sopravvivenza di tripartiti, quadripartiti o pentapartiti. Ricordate? Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli. Si trattava (e sarà così dopo le elezioni) di governi fragili. Tormentati.
Minati da diffidenze e veti reciproci. Appesi alle bizze, e ai ricatti, di partitini con percentuali da prefisso telefonico. Soggetti anche alla formula della staffetta: cominci tu, poi tocca a me. Non a caso, furono solo tre in 46 anni i segretari (Craxi, De Mita e Fanfani) che assunsero quello che si chiamava doppio incarico. Chissà se Renzi prenderà il rischio. Il grillino Luigi Di Maio, se toccherà a lui, sicuramente sì. Ma si tratterà di capire se gli alleati, perché ci sarà anche questo problema, lo permetteranno.